PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula.
BJöRK > FOSSORA
Il decimo capitolo della storia del folletto islandese più noto della musica è un tentativo estremo di investigare la propria origine terrena, trattando il lato più naturale del ciclo della vita e nel mentre contemplare, tramite una vera e propria geologia e micologia musicale tecno-classica, i costituenti più elementari del pianeta Terra. Tale piano ambizioso viene perpetuato tramite un uso spasmodico delle frequenze basse prodotte da strumenti dalle timbriche particolarmente grevi come clarinetti, tube, corni, controfagotti e basi elettroniche che smuovono le viscere e compongono inni funebri che accompagnano l’ascoltatore in un viaggio assolutamente peculiare. Le vicende attorno alla scomparsa della madre sono alla base del duo “Sorrowful Soil” e “Ancestress”, rappresentanti in pieno il picco emozionale del disco, che in generale presenta un’attenzione più mirata alle melodie se paragonato al precedente lavoro “Vulnicura”. Il resto del lotto è pervaso da un’aurea di matriarcato pagano e incastonato nella crosta terrestre. Una donna nell’arco della sua vita produce più di 400 uova, ma solo alcune di esse attecchiscono effettivamente: vite potenziali che, come spore fungine, vengono cantate come parte di un immaginario basato sul fango e su ciò che può prender vita da esso (“Fungal City”, “Atopos”, “Mycelia”), trasferendo parte della psicologia femminile, tramite il meccanismo del lutto, in una sorta di elegia sociale ben ispirata dalla realtà folkloristica islandese (“Ovule”, “Her Mother’s House”) e dal ruolo della donna in essa. L’esplorazione di tutto ciò che è in grado di generare nuove esistenze deve partire dalle fondamenta spesso confuse nel suolo, nel buio: ed è così che momenti musicali composti da cori ieratici perlopiù femminili si contrappongono a violente basi techno (“Fossora”, “Victimhood”) da ascoltare a altissimo volume per scavare più a fondo anche nel significato più viscerale possibile di una delle parole più belle che possano esistere: mamma. Il disco difetta di molti dei problemi intravisti nel post-Medulla, ma l’urgenza artistica bilancia perfettamente alcuni momenti che, dotati anche di giusta melodia, rimangono assolutamente memorabili. Forse per questo motivo Fossora potrebbe essere il disco più riuscito di Björk degli ultimi tempi, fermo restando che qualche momento degno di nota, anche nei momenti meno ispirati, è sempre presente. (Alessandro Romeo)
MARLENE KUNTZ > KARMA CLIMA
Altra “lunga attesa” per i Marlene. A 6 anni dall’omonimo album tornano con la loro undicesima fatica. Che è stavolta un concept album, il primo della carriera. Il tema è forte: il cambiamento climatico, le colpe dell’uomo, il destino del pianeta. Concepita in luoghi suggestivi e avvolti nella natura, “in fuga” dal mondo (ma aperti all’arrivo di fan e curiosi) la band ci regala un’opera che, al tempo stesso, è un manifesto culturale. Con diverse particolarità. Assente (per la prima volta) Luca Bergia, la batteria è affidata a Sergio Carnevale (Bluvertigo). Nel disco, certamente, si intravede l’attuale discorso artistico di Cristiano Godano (recenti le sue uscite soliste): meno “pungenti” stavolta le chitarre di Riccardo Tesio, le tracce si caratterizzano per dei suoni morbidi e delicati (echi dei Marlene di “Bianco Sporco”) intrecciati alle liriche intime e dolenti di Godano, vere poesie in musica (o preghiere, come la splendida “Laica Preghiera” – tra i picchi del disco – declamata a due voci con Elisa). Pregevoli le parti elettroniche (notevole il lavoro di Davide Arneodo al pianoforte e sintetizzatori) che spiccano nella trascinante “La Fuga” – primo singolo dell’album – e in “Vita su Marte” – dai sentori “marlenhead” (noto l’apprezzamento dei nostri per i Radiohead) e da notare, peraltro, per l’ottimo drumming di Carnevale. Un disco che, con gli ascolti, svela diversi momenti di grande intensità (il vibrante crescendo di “Bastasse”; i sussulti di malinconia della conclusiva “L’aria era nell’anima”). Un lavoro maturo, impegnato, che farà storcere il naso ai nostalgici della prima ora (in cerca dei Marlene “noise”) ma frutto della legittima scelta della band di muoversi, oggi, consapevolmente – e liberamente – tra territori musicali diversi, e non per questo inconciliabili. Ma soprattutto, sempre intensi e suggestivi. (Stefano Naim)
APE UNIT > FILTH
Il 9 luglio scorso i piemontesi Ape Unit rilasciano Filth, un full-length dedicato a tutti coloro che provino il fisiologico desiderio di avere i propri padiglioni auricolari violentati da un acuminato guazzabuglio di grindcore, hardcore punk, powerviolence e compagnia bella. L’album con cui i nostri tornano sulle scene a cinque anni dall’ultimo lavoro è un’iridescente accozzaglia di roba violenta ed ignorante: blast-beat ultra-metal, sincopati riff grind, variegate vocals che passano da un cavernoso growl magistralmente eseguito ad un ironico e tagliente scream, quasi a scimmiottare chi in powerviolence e simili cerchi seriosità e contenuto. La spezia che comunque accomuna tutte le specialità che troverete nel menù di Filth è il cambio di tempo schizoide, l’incredibile facilità e noncuranza con cui i nostri sono capaci non solo di cambiare il ritmo delle battute ma anche il genere, l’attitudine che da scazzo-punk-di-periferia passa alla sete di sangue più omicida per poi riavvolgersi nel più confortante hardcore anni ’00. Non la svolta per chi nel grindcore cerca novità e contaminazioni, convinto che i Napalm Death abbiano ormai fatto il loro corso, ma una dovere d’ascolto per chi dal genere voglia passione e genuino divertimento. (Davide Brioschi)
THE BOBBY LEES > BELLEVUE
Se vogliamo superare frasi retoriche del tipo “punk is not dead” dobbiamo affidarci sempre di più a gruppi come The Bobby Lees. Siamo consapevoli che le sonorità del punk sono oramai intrinseche nel DNA di ogni musicista che che si definisca rock, e chiunque sa riconoscere dopo appena due accordi un brano dei Ramones o dei Sex Pistols, ma in quanti sanno maneggiare questa materia con il rispetto dovuto? I The Bobby Lees lo sanno fare. Hanno l’attitudine giusta, afferrano con polso fermo il punk, lo fanno loro, gli donano freschezza costruendo brani che suonano come degli instant classics. La band si forma a Woodstock nello stato di New York, è un quartetto che ha già inciso tre album di cui l’ultimo, Bellevue è uscito recentemente per la Ipecac Recording. Bellevue è una scarica elettrica scatenata con gusto e cattiveria, le sonorità richiamano a gruppi classici come The B-52’s e Damned. Le chitarre ed i giri di basso aggressivi che vanno a dare nuova linfa alle sonorità più canoniche e la presenza scenica e vocale di Sam Quartin rendono questa opera una miscela esplosiva di punk, garage e new wave. Ascoltate “Ma Likes to Drink” e “Hollywood Junkyard” , ne rimarrete stregati. (Matteo Bozzuto)
NORMA JEAN > DEATHRATTLE SING
Norma Jean: un nome che di fatto è garanzia per qualcosa che è sempre potenzialmente sorprendente, non se si pensa a un ambiente vasto, ma individualmente, alla band stessa. Ogni lavoro della band contiene sempre una piccolissima deviazione da un suono che ormai la band non ha più come prestabilito, ma abbiamo imparato a capire subito che sono loro anche quando si ascolta qualcosa di nuovo perché essenzialmente sono riconoscibili, anche in questa nuova sbandata che li porta verso sonorità molto vicine agli Architects di metà carriera. Il disco è colmo di questa rudezza lasciata da melodie e dinamismo che sono di fatto assemblati bene. Ed è certo che un loro fan facente parte dello zoccolo duro, di quelli che li han seguiti fin dall’inizio del secolo forse non gradirà questa sterzata così raffinata. A mio parere siamo di fronte a qualcosa che cerca solo di essere meno elitario e aperto ad ascolti più semplici e magari anche più fruibili per un pubblico più ampio. Io non li biasimo di sicuro. Quindi bravi Norma Jean che sanno sempre far nascere pensiero con la loro musica. (Antonio Sechi)
VERDENA > VOLEVO MAGIA
Ci hanno sempre “sfinito” con interminabili attese. A 7 anni da Enkadenz – in mezzo una pandemia, progetti paralleli (i fratelli Ferrari) maternità (Roberta Sammarelli) – riappaiono i Verdena. E il titolo è già un programma. I ragazzi “vogliono magia”, o gridano oggi il rischio di perderla. Ma dentro il loro “pollaio” il demone della magia continua a frequentarli. Fedeli a sé stessi, tra la voglia di comunicare e il bisogno di preservare il loro mondo (criptici, se non indecifrabili, come sempre, i testi di Alberto Ferrari) i bergamaschi partoriscono un disco che è un caleidoscopio di immagini sonore. E che galleggia, senza imbarazzo, dall’hardcore al cantautorato. Nel mezzo si impastano dilatazioni oniriche, stratificazioni elettroniche, riff martellanti, arpeggi folk-country. I pezzi dipingono, con disinvoltura, ognuno diversi paesaggi: dalle atmosfere elettro-acustiche di Chaise Longue, all’ omaggio hard’n blues della beatlesiana Paul e Linda, ai ruggiti stoner di Pascolare (echi di Requiem?). Se Lucio Battisti possiede l’anima del trio in Certi Magazine, reminiscenze à-la Smashing Pumpkins incendiano la successiva Crystal Ball; note “ispaniche” colorano la tribaleggiante Dialobik; la furiosa title-track è una sorta di divertissement in salsa metalcore; l’accattivante Sino A Notte (D.I.) cattura con il suo quasi-funk ballabile. Ma arriviamo ai piatti pregiati: Sui Ghiacciai è una splendida ballata che luccica di struggente malinconia; dosi di psichedelia innervano Cielo Super Acceso (una trance a ritmo di basso e batteria); Per Sempre Assente è un’altra danza ipnotica che racchiude l’anima decadente e visionaria della band. Fuori da ogni convenzione, perennemente sospesi – tra genio e sregolatezza, in controluce tra riflettori e retrovie – tornano i Verdena, con un viaggio distopico e ammaliante. E, questa, è già magia. (Stefano Naim)
BLACK MIDI > HELLFIRE
Avevamo lasciato i Black Midi con il caos jazz-noise di Cavalcade, fautori di una delle prove più personali degli ultimi anni che stupisce ancor oggi principalmente per la maturità musicale mostrata da un combo di ventenni. Hellfire conferma lo stato di forma strepitoso dei nostri che, accompagnando questa uscita a un lotto di cover – Cavalcovers – danno forma a un altro funambolico viaggio nel brodo primordiale delle dodici note, tra soluzioni che vanno con disinvoltura spiazzante a pescare arrangiamenti Sinatriani (“Sugar/Tzu”, “The Defence”), ossessività prog-funk (“Welcome to Hell”, “27 Questions”), country-folk western-oriented (“Dangerous Llaisons”, “Still”) e momenti che quasi ricordano il prog latino tarantolato dei vecchi Mars Volta (“Eat Men Eat”, “The Race is About to Begin”) condito da lunghi sproloqui vocali – i quali in realtà nascondono storie di vari personaggi al centro dell’immaginario della band – al limite dell’hip-hop più serrato. Il talento dei nostri è talmente cristallino da far risultare addirittura orecchiabili le 10 tracce proposte che, ben lungi dall’essere vagamente radiofoniche, costruiscono e allentano continuamente tensioni e brutalità tramite un uso estremamente consapevole di transizioni mai forzate. E questo, considerando a priori il genere, non è minimamente scontato. A detta del frontman Geordie Greep, Hellfire, a differenza del dramma espresso nel precedente episodio, è un’opera epica che fa da colonna sonora a dolori, perdite, angosce. Non si può che elogiare gli inglesi con un ulteriore ed enorme chapeau, data la scelta di trattare questo genere di temi senza prendersi troppo sul serio, trasmettendo anche musicalmente un’ironia che dovrebbe essere alla base di qualunque momento delle nostre vite dominate dal caos. (Alessandro Romeo)
MACHINE HEAD > OF KINGDOM AND CROWN
La formalità mi costringe a scrivere questa breve recensione riferendomi ai Machine Head nel complesso, ma di base, se i riff di questo nuovo e dei due precedenti dischi sono praticamente identici a quelli che si sentivano anche in The Blackening, se la struttura del disco è la medesima da ben 5 dischi, le pause in cui Rob Flynn dice due cose prima che riparta la musica con il suo growl fiacco non sono più efficaci, se questa band con la scusa di un sound riconoscibile sta sfornando dischi a specchio, se i solo sono sempre lunghi e prolissi, se cercando di rinfrescare le sonorità e lo spirito sono andati a pescare dal metalcore del 2010 che puzzava di vecchio già allora con quei breakdown innocui, se è stato necessario ricorrere a banali intermezzi farlocchi black metal, se il drumming è diventato solo un ripetitivo tum-pa tum-pa noioso che fa rimpiangere quello colorato di Dave McClain, se non sentiamo più i chitarrismi diversificati di Phill Demmel a fare da contrappeso alla totale mancanza di fantasia di Flynn… è solo a causa di Rob Flynn che ormai sarebbe il nome con cui si dovrebbe chiamare questa band. Con loro sarebbe ora di chiuderla e basta. (Antonio Sechi)