Sono in spiaggia, fa caldissimo, il mare è una mano santa. Suona il cellulare, un nuovo messaggio: è il Sommo Capo di GOTR che mi chiede novità sull’ultimo parto targato Akhlys. Gli dico che è tutto ok, l’ascolto procede bene anche se, va detto, ascoltare del black metal in piena estate, in vacanza nella splendida cornice siciliana, è un’esperienza straniante, al limite della fuga extracorporea. Ora che sono tornato al nord, davanti al mio fidato pc, posso dedicarmici con più attenzione. E sì, perché la band americana, qui al quarto disco in studio, ha tirato fuori un lavoro che se non è un capolavoro poco ci manca. Naas Alcameth, la mente dietro al progetto, partendo da quanto di buono fatto con i precedenti lavori in studio, spinge la propria creatura sempre più in alto, un Icaro osceno che affronta il sole e lo sconfigge, spegnendolo a colpi di un mix letale di black metal, ambient, industrial e, soprattutto, una continua atmosfera orrorifica che si attacca alla pelle e non va più via.
Aprire un album con una suite di quasi dodici minuti, “The Mask of Night-speaking”, con quei riff dissonanti, dei sample che trasudano angoscia – e qui la mente, prima di bloccarsi del tutto per la paura, viaggia spedita nei meandri del grande Lovecraft – e una batteria, ad opera dell’ottimo Eoghan, che scandisce i rintocchi del tracollo psicofisico, ecco, dicevamo, aprire un album così non è coraggio, non è spavalderia, non è sbruffonaggine, ma solo tanta, tantissima classe e consapevolezza della propria Arte. La successiva “Maze of Phobetor” alza ulteriormente la voce, il suono si fa ancora più violento, i tre non perdono tempo ma pestano forte e riescono a convincere appieno anche in una veste più asciutta, cruda, selvaggia. Le radici prettamente ambient, quelle del debutto per intenderci, fanno capolino a metà disco con la quasi title-track “Black Geminus”, dove tutto si fa più liquido – ma sempre di pece fumante si parla -, più rarefatto, e la luce, se mai pensassimo di trovarne un barlume, è definitivamente negata. D’altronde se dal Colorado scegli di chiamare la tua band con un termine che secondo alcune cosmogonie antiche definiva la notte eterna che esisteva ancor prima del Caos, non puoi esimerti dal gettare l’ascoltatore in una cloaca di tristezza, disperazione e lamento.
Alle volte la musica estrema è una catarsi necessaria. Lo sappiamo bene noi che da anni ci massacriamo le orecchie con album di incredibile bellezza. Lo sanno anche i musici, e qui un grazie enorme al genio sconfinato di Naas Alcameth, che ogni giorno ci regala emozioni incredibili. Come nella conclusiva “Eye of the Daemon – Daemon I”, che nonostante sia la traccia più “lineare” – ci sono band che darebbero l’anima per un songwriting così ispirato, altrochè – è il degno saluto quando tacciono le trombe dell’Apocalisse, il vento si placa, tutto resta fermo.
Spesso essere macerie è l’unica salvezza.
(Debemur Morti Productions, 2024)
1. The Mask of Night-speaking
2. Maze of Phobetor
3. Through the Abyssal Door
4. Black Geminus
5. Sister Silence, Brother Sleep
6. Eye of the Daemon – Daemon I