Il debutto dei Porcelain, da Austin, è una ventata di freschezza. Partendo da un retaggio punk e hardcore, dove il prefisso post- assume connotati essenziali, la band assembla un lavoro che attraversa tutta la gamma di emozioni di due generi così diretti e genuini.
L’arpeggio iniziale di “Obi”, subito accompagnato dalla voce stridula, ma ugualmente piacevole, di Steve Pike – anche chitarrista – è un chiaro biglietto da visita: c’è l’urgenza di trasmettere tutto il disagio di una generazione, in costante bilico tra successi, pochi e sempre effimeri, e fallimenti, troppi e mai leggeri da sopportare. Tutta la band è coesa nel portare avanti una scrittura che non è mai troppo densa, i suoni dei singoli strumenti sono facilmente distinguibili, quindi hanno schivato il rischio di creare un muro di rumori che, francamente, spesso nasconde pochezza di intenti e scarsa capacità di coerenza e onestà. “Vanity” è un assalto all’arma bianca dove la melodia si sposa benissimo con l’irruenza del basso di Jordan Emmert. Le acque limacciose del noise uniscono questo brano col successivo “World I Know”, amalgamando malessere e perdita di innocenza. La musica dei nostri è un fluido letale, sfreccia nelle vene mentre i ritmi sincopati ci trasportano in un’intercapedine esistenziale che trascende dal qui e dall’ora. Quando la batteria circolare di Eli Deitz inizia a martellare, la seduzione tossica dei Porcelain assesta un colpo da maestri; la successiva “History” è un macigno di dieci minuti, un durata nonsense rispetto al resto delle canzoni, un punto di ristoro sul sentiero impervio, una piccola nuvola a proteggersi dal sole cocente, senza renderci conto che questi dieci minuti sono il manifesto maximo della sublime arte di uccidere i nemici. Un brano che è un enorme caleidoscopio, un cilindro dai mille e più conigli armati di mitragliatori. La pace arriva solo dopo la morte. “Frozen Sea” cerca di mitigare le atmosfere, sembra di sentire i Blur dopo un’overdose di Red Bull e una nottata passata in infidi e lerci buchi del mondo, mentre “Plastic” si gioca le sue carte aumentando il carico sul versante pop: siamo in Inghilterra a bere tè caldo, o birra fredda, o dare e prendere pugni. Le sfumature, ad una certa, sono più facili da sopportare. “Invoices” poggia la sua grandezza su ritmi lenti, melodie ariose, con Pike e Ryan Fitzgibbon – anch’egli a dividersi voce e chitarre – declamano la loro resa, pare di trovarsi al capezzale del mondo intero. Un’atmosfera fitta, un silenzio che non è silenzio, il brit pop che porge fiori e parole ai noise, mentre punk e hardcore piangono in un angolo della stanza, luci soffuse, carta da parati vecchia di cinquant’anni. La chiosa finale, beffardamente intitolata “Disgrace”, è un saluto sull’uscio di casa, quando un figlio va a vivere lontano e il mondo sembra una gigantesca bocca spalancata, un biglietto di sola andata e lacrime mandate giù con l’imbuto.
I Porcelain hanno scritto un album bellissimo pescando da più generi – la sensazione di trovarsi a cavallo degli anni Novanta è inebriante – senza mai cadere nel facile copia/incolla, mettendo davanti a tutto una scrittura matura, consapevole, credibilissima. Una delle uscite migliori di quest’anno.
(Portrayal of Guilt, 2024)
1. Obi
2. Vanity
3. World I Know
4. History
5. Frozen Sea
6. Plastic
7. Invoices
8. Disgrace