Diciamolo subito, andando un po’ contro la tendenza tipica di una recensione: questo nuovo album dei God Is An Astronaut, a mio parere, è semplicemente stupendo. Nei nove brani di Embers, uscito il 6 settembre per Napalm Records, è racchiusa tutta l’essenza artistica e la sensibilità del gruppo. Con oltre vent’anni di carriera alle spalle, la band irlandese, tra i capisaldi del post-rock, raggiunge qui una nuova vetta espressiva: un’evoluzione che preserva quella magia inimitabile affinata nel tempo, ma che continua a sorprendere per intensità e freschezza. L’album presenta alcune interessanti novità sonore, come l’uso del sitar, della cetra e di soluzioni armoniche che evocano atmosfere orientali ed etniche, il tutto racchiuso nel rassicurante abbraccio delle sonorità che la band ha perfezionato nel tempo. Nonostante la recente scomparsa del padre dei fratelli Kinsella, l’atmosfera del disco è sorprendentemente più luminosa rispetto ai precedenti Ghost Tapes #10 e, soprattutto, all’oscuro Epitaph, dove solo rari bagliori di speranza facevano capolino di tanto in tanto, come nella meravigliosa “Seance Room”. La copertina, firmata David Rooney, è anch’essa molto azzeccata: un albero che si staglia su uno sfondo infuocato, con radici che affondano in una terra oscura, mentre la chioma si trasforma in fiamme colorate che sembrano aspirare alla volta celeste. È un’immagine che racchiude perfettamente l’essenza dell’album: un’opera che brucia di passione, di luce e di ombre, proprio come la musica che accompagna. Ascoltando Embers, infatti, sembra quasi di camminare in una foresta oscura in cui giochi di ombre del paesaggio notturno si alternano a improvvisi fasci di luce, tra fuochi fatui melodici e intarsi sonori magnetici e suggestivi. È un disco compatto, dalle idee chiare, che scorre con la potenza di un fiume in piena per tutti i suoi 57 minuti.
I brani della tracklist sono veramente notevoli: le sonorità abbracciano il post-rock tipico dei Nostri, ma spesso le composizioni subiscono delle evoluzioni di stampo progressive, in cui l’anima metal e rock del gruppo prende il sopravvento; il tutto, però, non è mai fatto per il puro gusto di movimentare i brani o per mero esercizio di stile. La struttura dei brani è parte di una narrazione coerente ed estremamente avvolgente: ogni elemento sembra avere un suo preciso scopo, contribuendo a un viaggio sonoro che evolve con naturalezza, senza forzature, ma con una sorta di fluidità che coinvolge a livello emotivo e sensoriale. Già dal primo brano, “Apparition”, si percepisce l’altissima qualità del lavoro. L’introduzione è calma e bilanciata, con chitarre pulite che fluttuano su aperture esotiche, sostenute dal sitar e da suggestioni arabeggianti, creando un’atmosfera in perfetto equilibrio tra novità e continuità con il tipico stile del gruppo. Il talento degli irlandesi nel disegnare paesaggi sonori che raccontano scenari a occhi aperti è sempre presente, e in questo lavoro tutto assume una dimensione ancora più sconfinata: ci si ritrova a viaggiare anche in senso geografico, per certi versi. In quanto a bei pezzi c’è davvero l’imbarazzo della scelta: i dieci minuti di “Embers”, un fuoco deflagrante di caos dapprima controllato, poi furioso, con un crescendo di batteria che sfiora il black metal, per poi aprirsi in una sezione eterea e euforica, come fosse un fuoco che brucia e purifica tutto al suo passaggio. La strepitosa “Odyssey”, che grida a gran voce God Is An Astronaut, tanto nei fraseggi che evocano una profonda sensazione di viaggio e movimento, quanto nel modo in cui riesce ad emozionare con le chitarre pulite, stavolta contaminate da soluzioni sonore inedite, come sitar e cetra, che aggiungono nuove sfumature al già ricco sound della band. “Falling Leaves”, una meraviglia di estasi malinconica dall’apertura circolare e luminosa, che trasmette un delizioso senso di fine e rinascita; la splendida “Heart of Roots”, un gioiello oscuro e etereo, con un passaggio molto emozionante che ricorda la sopracitata “Seance Room”. Quando l’atmosfera glaciale iniziale si apre nell’estatico disvelamento finale, tra note di pianoforte e misteriosi riff di chitarra pulita, non può che conquistare la mente e il cuore: anche nella notte più oscura, le radici dell’anima sono salde, inamovibili e luminose. Indubbiamente il mio pezzo preferito. L’apporto di Jo Quail al violoncello, che aveva già collaborato nella bellissima “Luminous Waves” (da Ghost Tapes #10), aggiunge un ulteriore livello di profondità alle trame di “Realms”. Le sue tonalità sovrannaturali, antiche e solenni, ci immergono in un suggestivo pezzo ambient che sembra abbracciare la natura ancestrale dell’essere umano, in uno dei pezzi più cinematografici dell’intero lavoro. Il violoncello è uno degli ingredienti più preziosi anche di “Prism”, dove ha la funzione di accompagnare delicatamente il pianoforte elettrico in un crescendo di emozioni, riscaldando i morbidi fraseggi di chitarra riverberati, così evanescenti da assomigliare alla natura sfuggente del vento. Il delicato ingresso della batteria nel finale trasmette un’ulteriore solennità che rende anche questa traccia fondamentale nella narrazione complessiva dell’album. La sinuosa “Oscillation” si apre con un basso pulsante su cui si infrangono riff elettrici spigolosi e minacciosi che danno vita ad un’atmosfera oscura e misteriosa; la successiva apertura ampia e luminosa, dove gli arpeggi di chitarra contrastano magnificamente con le progressioni più complesse e i riff imponenti, dipinge un paesaggio sonoro ricco di contrasti e dinamismo. Poi c’è la profonda commozione di “Hourglass”, con le sue note malinconiche di pianoforte che ci riportano all’atmosfera di All is Violent, All is Bright. Gli archi contribuiscono a creare una magia palpabile, che culmina in un un picco emotivo affidato alla chitarra elettrica verso la fine, capace di commuovere fino alle lacrime.
Non c’è nulla che stoni in Embers. È un altro capitolo straordinario di una band che, senza clamore, continua a esplorare nuovi territori senza mai tradire la propria identità. Si tratta di Artisti con la “A” maiuscola, che ci accolgono nel loro universo sonoro con naturalezza, evolvendo il loro linguaggio musicale e dimostrando, ancora una volta, di saper coniugare familiarità e innovazione in modo del tutto unico. Una vera e propria colonna sonora per l’anima.
(Napalm Records, 2024)
1. Apparition
2. Falling Leaves
3. Odyssey
4. Heart of Roots
5. Embers
6. Realms (feat. Jo Quail)
7. Oscillation
8. Prism (feat. Jo Quail)
9. Hourglass