Alle volte capita di imbattersi in dischi che, sebbene un sound delicato, sanno incidere più di tanti altri che scelgono la via più facile, quella del volume altissimo, del rumore, dell’ardore selvaggio. Alle volte capita di ascoltare opere che riescono a trasmettere tutta una gamma di sensazioni, semplicemente sussurrando dai solchi di un vinile, da archi leggiadri, da strumenti antichi, da polvere e sabbia del deserto e rocce immortali, da secoli di storia a racconti tramandati con il solo ausilio di voci, anziane, e pianti, infantili. Alle volte il tempo pare trattenersi. Il tempo diventa un punto fermo nel cosmo. Il qui, l’ora, l’adesso. Leila Abdul-Rauf e la sua strenna, un nuovo album in studio che è probabilmente la salvezza dell’anima. Arrivata al quinto lavoro da solista, dopo una incredibile carriera in seno a band del calibro di Vastum, Amber Asylum, Hammers of Misfortune, Bastard Noise, Saros e chissà quante altre, abbandona in parte le sonorità dei precedenti episodi discografici, più improntati su sfumature oniriche, atmosfere bucoliche, desolazione e solitudine. Lo fa abbracciando ritmi etnici, folkloristici ed epici senza disdegnare chirurgiche digressioni moderne, quasi artificiali, industriali, andando così a creare un ibrido che, almeno sulla carta, non avrebbe nessuna possibilità di riuscita. Ma vuoi per l’esperienza – ore e ore spese tra studi di registrazioni e concerti – e, soprattutto, per un’innata capacità di studiare il mondo circostante – dall’emergenza mondiale di una pandemia, alle guerre sanguinose in terre nemmeno tanto lontane da noi, arrivando fino al rigurgitante ritorno di fascismi che pensavamo e speravamo morti da tempo – ecco che la Nostra brilla di luce propria, scrivendo canzoni che sono piccoli gioielli di inestimabile valore.
Una sorta di omaggio al Bolero apre il disco; “Summon” è un brano scarno, atmosferico, etereo, dove le vibrazioni etniche punzecchiano i nostri sensi assopiti. La seguente “Mukhalafat” è una strumentale granulosa, dai suoni caldi, dall’andamento lento e accondiscendente. Poi “Depths Of Us”, un brano bellissimo, mischia folklore, snobismo jazz, isolamento new age, accenni al Peter Gabriel più istrionico e paranoico. Le strofe, il ritornello, ogni sillaba pronunciata da Leila Abdul-Rauf è un’arca che salpa verso la rinascita del mondo. La moltitudine di strumenti usati (tromba, archi, synth, percussioni, drum machine, e tanti altri) accordano la preghiera di “Failure To Fire”. Voce e musica che si rapprendono assieme, un componimento che diventa concepimento per una nuova forma di vita, probabilmente celeste. Ma è solo un antipasto, una sbirciata sul mondo nuovo che è “The Light That Left You”, una mano che apre il cielo, accarezza noi tutti, stremati a terra; dormiamo o moriamo, non importa, quando le stelle diventano gocce di infinito. Gli occhi si chiudono, la testa barcolla leggermente, seguono le note di “Crimes Of The Soul”, tra un Bolero – ancora! -, una grassa marcia degli elefanti, un vecchio carillon, una danza cosmica, una parata di divinità tra gli uomini. Non siamo più qui, siamo altrove, siamo oltre. “The Summed” chiude l’album, un riassunto di tutto ciò che abbiamo ascoltato e assaporato. Un soave promemoria che suggella un disco davvero bello ma soprattutto potente, potentissimo.
Di quella potenza che non la puoi vedere; solo presumere, pregustare. L’elettricità nell’aria prima del temporale. Un sonno agitato prima di un grande giorno. Un futuro che, alle volte, capita di scoprirlo quasi per caso.
(Cyclic Law, Syrup Moose, 2024)
1. Summon
2. Mukhalafat
3. Depths Of Us
4. Failure To Fire
5. The Light That Left You
6. Crimes Of The Soul
7. The Summoned