Venticinque anni spesi a distruggere ogni convenzione musicale, ecco cosa hanno combinato i The Body. Chip King (voce e chitarre) e Lee Buford (batteria, percussioni, elettronica) sono l’anima, posseduta, ed il corpo, putrescente, di un progetto musicale che ha scritto pagine e pagine di dolore, afflizione, rassegnazione, sgomento, ansia, paura. Una discografia infinita, tra album/EP/singoli a nome proprio e molte uscite con altre band (Thou, Full of Hell, Uniform, Dis Fig, OAA e tanti altri), che raramente ha visto periodi di stanca o di scadente ispirazione. Anzi, il duo pare abbia sempre spostato la propria arte in terre vergini, imparando e sperimentando dai propri passi ma anche dalle escursioni con le combriccole – tutte poco raccomandabili, e mai complimento fu più facile da fare – appena citate qui sopra, quindi mi sono avvicinato a questo nuovo album accollandomi sulle spalle un bel carico di entusiasmo, curiosità, certezze: come detto, The Body è sinonimo di ottima musica. The Crying Out of Things – titolo preciso come un cecchino che ti becca in mezzo agli occhi – conferma il mio preambolo, lo solidifica per i posteri. Il nono disco in studio è infatti una parata di quello che, in questo quarto di secolo, la band americana ha creato, pezzo dopo pezzo: una gigantesca creatura multiforme, mai doma, mai statica, mai banale. Un sound che prende il rumore primordiale del cosmo, del Big Bang e della successiva creazione di tutto, e lo usa in maniera positiva, lasciando ad altri lo scontato utilizzo – quello della facile distruzione – mentre per King e Buford il caos rappresenta una natalità da celebrare. Anche quando un album diventa la perfetta colonna sonora di un’apocalisse, soprattutto umana e individuale. Quello che diventa palese è che ogni singolo dettaglio – rumori industriali, urla disumane, chitarre dodecafoniche, suoni di dubbia natura – non è mai un qualcosa che vaga libero per il pentagramma bensì una goccia che, insieme a miliardi di altre, va a formare uno specchio d’acqua dal colore sospetto, abitato da mostri mitologici. Sorprendentemente, viene naturale immergersi a fondo, rimanere sotto fino a sentire il fuoco nei polmoni.
I primi secondi di “Last Things” sono familiari. Si varca la porta, l’odore di una pietanza che si ama, l’accoglienza. Ma tutto finisce in fretta, Chip King dà sfogo alla sua ugola, la sua voce non appartiene a questo mondo, arriva da lontano, dall’inferno o da un pianeta inesplorato. La sua è una continua litania tormentata, una spatola che gratta via la pelle, arriva alla carne, tocca le ossa. Il carosello di effetti e rumori rende il sound finale così sporco, siamo nel noise più becero e nemmeno i fiati di Dan Blacksburg, da anni con la band, possono far cambiare le (ultime) cose; il dubbio tra strumenti non accordati e non saperli proprio suonare è una lama seducente da far scorrere sulla nostra gola. La successiva “Removal” è un inno nichilista, uno spietato assassino a caccia di speranze da disattendere e abbattere; le macerie sfumate dell’opener sono un invito a proseguire su questa strada lastricata di sogni infranti. Incipit drum and bass, sussulti hip hop e la ghigliottina vocale di King: nasce così una lotta aspra tra la commerciabilità di alcune scelte stilistiche e l’assoluto rifiuto per la società. A metà brano i Nostri scelgono da che parte stare, il noise prende il sopravvento e tutto declina in una marcia verso la morte, che altro non è che una rimozione dalla vita. Con “Careless and Worn” il piano dei The Body pare evidente: unire filosoficamente e musicalmente tutte le tracce del disco. Un flusso costante, senza soluzione di continuità, senza un briciolo di speranza. I rumori sono il grosso di questo terzo brano che pare porre domande precise, quesiti esistenziali che lasciano atterriti: perché vivere una vita che poi è destinata a finire? Perché nutrirsi, metaforicamente e non, perché sperare, perché sognare? Un growl animalesco aumenta il disagio, c’è davvero il desiderio che la canzone finisca al più presto, il peso è insostenibile, lascia corpi inermi, trascurati e logori. Arrivati a questo punto abbiamo ascoltato un terzo dell’album e le forze cominciano subito a mancare. Segue “A Premonition”, brano con una precisa dichiarazione d’intenti: l’allontanamento quasi totale alla forma canzone. Base dub, elettronica a basse frequenze, una batteria minimal, loop station e voci ipnotiche, il dolore evidenziato come sempre dal latrare di King, senza dimenticarci dell’apporto di Ben Eberle, anch’egli da tempo con la band. Il corno inglese ruba la scena, ora siamo su un campo di battaglia a camminare tra i morti, le gambe malconce, probabilmente rotte, ma il finale della canzone reclama il nostro corpo, c’è da ballare. Un ballo volgare, movimenti senza senso, uno sfogo animalesco. Da lontano, corpi che si dimenano, aggraziati come le fiamme di un falò. Il fumo che si innalza è una premonizione, la fine è vicina. Perché le conseguenze di questo brano sono qui, incontrovertibili: “Less Meaning” è tutta esagerata. Sincopata, ridondante, parossistica, quasi inascoltabili alcuni passaggi. La voce così effettata, tremendamente artificiale. Uomo, macchina, sangue, petrolio, carne, lamiere. Indivisibili. Al termine del pezzo la rassegnazione comincia ad avvolgere l’ascoltatore; la successiva “The Citadel Unconquered” è un’appendice quasi strumentale, i rumori scemano, rimane una percussione basica e tribale, la voce – pulita – recitata, volutamente distaccata, quasi un giudizio universale. Anche in un brano asciutto da qualsiasi esondazione misantropica e rivoluzionaria, si percepisce un senso di abbandono, non c’è luce, nemmeno quando la notte più lunga se ne va, perché il giorno ha smesso da tempo di essere accogliente. Le ultime tre tracce sono un declino verticale per l’essere umano. “End of Line” mette ai margini la forma canzone, è tutto un vagare senza meta attraverso luoghi oramai sfigurati; l’apocalisse diventa una comfort zone. Suoni iper compressi, distorsioni industriali a ciclo continuo. Continua a vincere il rifiuto alla vita. Questo peregrinare è faticoso, la mente gioca strani scherzi, non vediamo oasi ma un edificio, un enorme dito (medio?) puntato verso il cielo. “The Building” è l’unica costruzione ancora in piedi, sarà reale? O è solo immaginazione? La voce eterea di Felicia Chen alimenta il dubbio. Aggrapparsi alle ultime briciole di fede rappresenta l’unica via di salvezza, l’ultimo pasto, prendete e mangiatene tutti. Tutto quanto. Tutto compreso. Ingurgitiamo tutte le bugie di una vita altrimenti nulla. Il sacrificio, atto finale. Perché se tutto ha un inizio, tutto ha anche una fine: “All Worries” è l’ultimo passo, la processione, soprattutto vocalmente – sembra di assistere ad una messa su un pianeta lontanissimo. Torna la batteria a picchiare lenta, pachidermica, il corollario dei rumori, un letto sporco, lenzuola rese gialle dal sudore, dalla perdita di fluidi. Le labbra che arrivate a questo punto non tengono più, sono dighe distrutte, il volto trasfigurato, la bocca che diventa un buco nero, una vagina cannibale. Tutta l’umanità verrà divorata. La fine di un viaggio a ritroso. L’antimateria in un disco, attraverso nove canzoni, nove chiodi per una croce senza un proprietario.
Tutto esiste. Tutto smette di farlo. E poi vuoto. Silenzio. Le cose smettono di gridare.
(Thrill Jockey Records, 2024)
1. Last Things
2. Removal
3. Careless and Worn
4. A Premonition
5. Less Meaning
6. The Citadel Unconquered
7. End of Line
8. The Building
9. All Worries