È difficile parlare di post-rock oggi senza pensare ai This Will Destroy You. Texani come gli Explosions in the Sky, nei primi anni 2000 hanno saputo interpretare al meglio le coordinate del genere, quando dischi come Young Mountain e S/T condensavano alla perfezione tutti gli elementi della miglior musica strumentale: atmosfere stratificate, crescendo emotivi, riverberi dilatati che sapevano di Sigur Rós e Mogwai, il tutto con una spiccata sensibilità dai tratti marcatamente cinematografici. Ad oggi dopo quasi vent’anni l’ascolto di S/T riesce ancora a rapirmi come la prima volta, e le immagini che mi evoca sono di pura bellezza. Quella formula, però, non è mai stata una prigione per la band americana: col tempo il suono dei This Will Destroy You si è fatto più radicale, andando a sottrarre o sperimentando con un approccio più scarno al suono, come nel monolitico Tunnel Blanket, o dissolvendolo nei paesaggi ambient più rarefatti di Another Language o Vespertine. In questa recensione, però, non parliamo di un nuovo album dei This Will Destroy You, bensì di qualcosa che si muove su un terreno diverso, pur affondando le radici nello stesso passato. Jeremy Galindo e Raymond Brown, due degli artefici principali della magia dei TWDY, si sono ritrovati dopo anni di distanza e percorsi di vita separati; Brown, che aveva lasciato la band per dedicarsi alla carriera medica, non ha mai smesso di scrivere musica, e quando le sue idee hanno trovato la strada verso Galindo durante la pandemia, la scintilla si è riaccesa. O forse, per meglio dire, non si era mai del tutto spenta: aveva soltanto bisogno di brillare con un nuovo nome. E più che un semplice side-project, il debutto di you, infinite ha il sapore di un remake, se volessimo usare un termine preso in prestito al mondo del cinema: non tanto una ripetizione fine a se stessa, quanto più un tentativo di ritrovare quell’intesa creativa che anni fa aveva dato forma a qualcosa di unico, con nuove consapevolezze e sensibilità diverse. Un aspetto che salta subito all’occhio di questo esordio, in uscita il 28 febbraio per Pelagic Records, è proprio il titolo: un album self-titled, come quello pubblicato dai This Will Destroy You nel 2008. E come il suo predecessore, anche questo disco sembra muoversi con una struttura simile, prendendosi il tempo necessario per sviluppare le sue atmosfere e dipanarsi su una durata molto generosa di circa un’ora. Eppure nonostante le affinità, c’è qualcosa che lo distingue nettamente: se l’album seminale del 2008 esplorava il post-rock con quella tensione trattenuta prima delle esplosioni sonore, you, infinite si muove su coordinate più soffuse e raccolte, lasciando che l’anima ambient permei quasi ogni angolo delle composizioni. Anche i momenti più dinamici di questo lavoro, infatti, non sfociano mai in climax troppo aggressivi, rimanendo sempre in una zona di calma e contemplazione, tra texture calde, arpeggi delicati e un uso del suono che sembra accarezzare, più che colpire con deflagrazioni sonore drammatiche.
“Focus on Reflection”, pur aprendo il disco, ha il respiro di un epilogo: un’atmosfera solenne, quasi da titoli di coda, con note pacifiche e sospese che cullano la mente in una dimensione atemporale. In un certo senso, potrebbe essere il tramonto di qualcosa e la prima luce che ne raccoglie l’eredità; un ponte tra passato e presente, tra ciò che i This Will Destroy You sono stati e ciò che sono ora: you, infinite. Due creature simili, nate dalla stessa luce. Chiudendo gli occhi, la melodia principale della tastiera richiama certe suggestioni dei Sigur Rós di (), non tanto nella malinconia tanto cara agli islandesi, quanto nella capacità di dilatare il tempo e lo spazio. La batteria marziale e i tremoli lontanissimi avvolgono il suono in una calma ovattata, evocando le atmosfere cinematografiche dei primi dischi dei TWDY e inebriandole di una luce più calda e avvolgente. A rendere il brano ancora più suggestivo sono le delicate aperture finali, dove la musica si schiude con una grazia davvero suggestiva. Segue il primo singolo estratto, “Throughlines”, che vive di una tensione a due facce: una prima sezione dominata da un riff sghembo ma affascinante che introduce il tema principale, e una seconda parte che ne amplifica la portata emotiva, con un fraseggio meraviglioso che si insinua nella mente con la naturalezza di un ricordo riaffiorato all’improvviso. La traccia sembra descrivere l’evoluzione di un flusso di pensieri, che culmina in un’apertura finale ricca di rivelazioni e consapevolezze; c’è persino una sottile venatura di ottimismo, ma sempre attraversata da un senso di nostalgia dal quale è davvero un piacere lasciarsi cullare. “Cutter” si muove su una sottile linea tra ambient e drone, costruendo un paesaggio sonoro sospeso, vasto e inesplorato. C’è questo synth glaciale, dal suono dolce e distante, che pulsa come un’eco in un vuoto cosmico: sembra il suono di un pianeta silenzioso, immerso in una quiete primordiale. Poi, quasi in punta di piedi, un tenue fraseggio di tastiera emerge dalla coltre sonora, come il delicato primo battito di vita che affiora in un mondo senza forma. È una specie di ninna nanna cosmica, dove il tempo si espande e ogni cosa sembra sospesa e fragile, in bilico tra quiete e impercettibili (ma significative) trasformazioni. “Loop 20” si sviluppa attorno a un riff ipnotico di chitarra elettrica, molto semplice ma carico di emozione, presto raggiunto dalle note di chitarra acustica, il cui calore ne amplifica la risonanza. Quando gli arpeggi iniziano a intrecciarsi con la batteria, si torna alle atmosfere di Young Mountain (è impossibile non pensare a “I Believe in Your Victory” o “The World is Our _____”). La ripetitività della melodia è molto rassicurante: le vibrazioni che trasmette sono di serenità e centratura, come se il tempo stesso rallentasse per lasciarci assorbire dalla musica e dalla delicata influenza di questi tenui spiragli di luce sonori. “The Elder” invece introduce subito una dose maggiore di elettricità, con riff di chitarra più incisivi e una sezione ritmica che si fa più massiccia, quasi a voler scuotere l’equilibrio etereo del disco. Dopo questa prima fase più vigorosa, il brano si apre a una sezione di classico post-rock, dove gli strumenti trasmettono una sensazione di movimento molto fluida. Il bridge, con quel riff essenziale ma ricco di sfumature, fa da spartiacque per dilatare la composizione, lasciando spazio al respiro delle note di chitarra e all’intensità degli archi, in una conclusione che ricorda gli episodi più neoclassici degli Hammock (nello specifico la trilogia di Mysterium, Universalis e Silencia). “Currents” si muove su coordinate più misteriose, con effetti di reverse delay che si dissolvono sullo sfondo come echi lontani: l’incedere di ambient minimale è rilassante, ma nelle sue trame dilatate convive una malinconia sottile che emerge nei tremoli riverberati e nelle note di chitarra pulita. La nostalgia qui è quasi ipnotica, ed è capace di riportare alla luce ricordi ed emozioni sopite con la delicatezza di un abbraccio. Nel finale, la batteria cresce con discrezione, lasciando infine emergere un riff di chitarra slide assai liberatorio: l’effetto è quello di una catarsi gentile, che non esplode ma si espande lentamente, come un’onda che avanza delicatamente prima di dissolversi nel mare. “Understated”, il brano più lungo dell’album, mi ha ricordato l’atmosfera onirica, sospesa tra sogno e realtà, di uno dei miei dischi ambient preferiti: Opalescent di Jon Hopkins. L’inizio e gran parte del brano sono eterei, con drum-machine e delicate note di tastiera che si intrecciano al fraseggio principale; la melodia dipinge un’alba immersa nel silenzio, mentre la sezione centrale, ridotta all’essenziale, sembra aprire una parentesi fuori dal tempo, lontana dal frastuono della vita quotidiana: un vero e proprio toccasana di solennità e pace. Poi, lentamente, la composizione si apre, e quando la batteria acustica entra in scena intorno ai sette minuti, con quel rullante così presente, il richiamo a S/T dei This Will Destroy You per me è stato davvero forte: il suono si fa più tangibile e terreno, pur mantenendo una leggerezza di fondo molto luminosa. Ci pensano poi le chitarre distorte in chiusura a squarciare il panorama con colori vividi, senza mai intaccare la familiarità della melodia principale, che si dissolve dolcemente in un fadeout. “Shine Eternal”, secondo singolo estratto, abbraccia sonorità di post-rock più classico, giocato interamente sul dialogo speculare tra due chitarre che si rincorrono; la sezione centrale è carica di dolcezza, ma anche di un senso di ottimismo misurato, un po’ sulla scia dei brani più sereni dei Pray for Sound. Nel finale, il brano torna alle atmosfere iniziali, ma con una batteria più libera e dinamica, che abbraccia la nostalgia delle due chitarre e aggiunge un ulteriore strato di calore al suono. La chiusura dell’album è affidata a “Dormant”, brano dall’atmosfera drammatica e avvolgente, dove i fraseggi strumentali si intrecciano con la batteria in un crescendo che si espande con la determinazione di una marea. Il culmine emotivo è affidato alla lunga sezione dilatata finale, in cui morbide note di tastiera si adagiano su un tappeto di pad eterei: anche qui, il brano non cerca esplosioni finali né catarsi eclatanti, ma preferisce dissolversi con dolcezza, lasciandoci sospesi tra contemplazione e nostalgia.
A conti fatti, you, infinite è un disco che non alza troppo la voce, ma che preferisce lasciare il segno con la sua delicatezza. La prima parte è più a fuoco, con una coesione evidente tra le tracce e un equilibrio ben bilanciato tra nostalgia e leggerezza: qui i brani si muovono con sicurezza, tra post-rock più classico e suggestioni raffinate di ambient, senza mai risultare derivativi. Nella seconda metà, invece, il mood generale risulta più disteso, e in alcuni momenti sembra perdersi nella sua stessa estasi sonora, dilatando forse un po’ troppo certe parti. Eppure, anche quando si lascia andare, l’album non smette mai di evocare immagini potenti, e l’ascolto rivela la natura genuina alla base di queste idee e la cura nel trasformarle in brani, senza alcun fine se non quello di fare musica con passione. Non cerca di sorprendere con svolte impreviste, né di imporsi con la grandiosità dei climax: you, infinite preferisce accarezzare piuttosto che scuotere, suggerire piuttosto che imporre. È un album che vive nelle sfumature, nelle pause, nei dettagli. Forse non avrà l’impatto dei suoi “fratelli maggiori” This Will Destroy You, ma nel suo modo elegante di costruire passaggi sonori saprà comunque regalare moltissimi momenti di calma interiore, aprendo piccoli varchi nella realtà del quotidiano e lasciando intravedere da lontano la quiete di orizzonti sconfinati, sfumati nei toni caldi di una luce infinita. E quella luce, in fondo, è parte di tutti noi; è la luce che ci rende vivi. you, infinite: tu, infinito.
(Pelagic Records, 2025)
1. Focus on Reflection
2. Throughlines
3. Cutter
4. Loop 20
5. The Elder
6. Currents
7. Understated
8. Shine Eternal
7. Dormant7.5