I Throne nascono nel 2014 a Jackson, nel Michigan. Escono con un EP nel 2018 mentre il primo album in studio vede la luce nel 2021. Pestilent Dawn è un mazzata di death metal con qualche accenno di blasfemia di stampo black metal (prettamente europeo). In questi quattro anni hanno un cambio di line-up: alla chitarra solista entra Tim Kenefic e, soprattutto per le melodie e gli assoli, direi che il cambio ha portato i suoi benefici. That Who Sat Upon Him, Was Death ci riconsegna una band che procede a passi lentissimi verso una propria evoluzione artistica, tant’è che può sorgere il dubbio che ai Nostri vada bene il monolite death che ci propongono da anni. In effetti le otto canzoni di questo secondo disco sono quadrate, fin troppo, in alcuni punti fa capolino un po’ di noia misto prevedibilità. Ma andiamo con ordine, non tutto è da buttare per fortuna.
Il corpus del songwriting è il chugga chugga delle chitarre, siamo al limite col brutal death. I due chitarristi, il sopraccitato Tim Kenefic alla solista e Nathan Barnes alla ritmica e voce, sanno impreziosire i brani con inserti melodici dal sapore sulfureo e ottimi assoli che, inseriti ad hoc in break atmosferici, sembrano uscire dai dischi migliori dei Morbid Angel. Attorno a loro c’è la sezione ritmica composta da Leslie Drake al basso, che suona un po’ in rimessa (prende il centro della scena soltanto con “Realm of Immolation”, la traccia dal sapore più prog, se mi passate l’ardire, più stratificata) e il mostruoso Kollin Perpignani alla batteria, musicista incredibile che molte volte annichilisce i suoi stessi compari con pattern intricatissimi e monsoni di blast beat che fanno tabula rasa di tutto il resto. Più di una volta durante l’ascolto ho avuto la chiara sensazione che le chitarre si scansino, lasciando procedere come una locomotiva infernale il buon Perpignani. Le canzoni quindi sono una vigorosa dimostrazione di forza e velocità, ma anche di tecnica e rabbia primordiale (in tal senso il black metal ricopre un ruolo importante) ed è ben orchestrato l’uso della doppia voce, growl animalesco e scream al vetriolo (sorprendentemente più sul deathcore che sul black metal, come era lecito attendersi). L’album procede spedito, dura mezz’ora, non ci sono picchi incredibili, non c’è un brano che risalta più degli altri, i canovacci del genere sono tutti ben riproposti, a tratti in maniera quasi scolastica, e ogni tanto i ragazzi del Michigan si fanno prendere la mano: si ascolti “Upon Deathless Winds” che in più parti sembra assemblata, malamente, con il nastro adesivo. Riguardo questo nuovo disco la band americana ha detto che era loro intenzione concentrarsi maggiormente su un approccio brutale, mantenendo ugualmente il lato più blackened, così da ottenere un suono più pesante. Ci sono riusciti? Così così.
Se i quattro impareranno a smussare questa voglia di strafare, se articoleranno meglio la struttura dei brani, se vireranno più sul deathcore (come la conclusiva “Where Angels Cower in Fear”) potrebbero trovare la giusta dimensione e dire finalmente la loro in un panorama, estremo e non, che si fa sempre più affollato. Non promossi a pieni voti, non bocciati in maniera spietata: diciamo che sono bravi ma non si applicano.
(Redefining Darkness Records, 2025)
1. Disentombed
2. To Breathe the Unknown
3. Blasphemous Perversion
4. Realm of Immolation
5. Human Frailty
6. Upon Deathless Winds
7. Behold Impurity
8. Where Angels Cower in Fear