Ci sono giorni in cui la vita è fin troppo rumorosa: un flusso inarrestabile di notifiche, scadenze e impegni affolla la mente, lasciandoci spesso senza un vero e proprio spazio per ascoltarci veramente. In quei momenti non si ha bisogno di ulteriori stimoli, quanto piuttosto di suoni che aiutino a creare spazio dentro. Il post-rock strumentale, nei suoi esempi più riusciti, risponde proprio a questa esigenza dell’anima: non cerca il virtuosismo, ma lavora sulle percezioni, riportandoci a contatto con una parte di noi che spesso si trascura, presi come siamo dal ritmo degli impegni quotidiani. Con la musica più adatta, però, si può riuscire ad allentare la frenesia moderna, in modo che i pensieri possano tornare a fluire con un ritmo più disteso e spontaneo. Dentro questa dimensione fuori dal tempo prende forma Menedék, il nuovo album dei Törzs, punta di diamante della scena post-rock ungherese, uscito il 16 maggio per Pelagic Records. Nel precedente Tükör, registrato nel 2019 dal vivo in una grotta patrimonio UNESCO, il riverbero naturale non era un semplice effetto acustico, ma parte viva del fascino del lavoro: le note tornavano indietro in leggere ondate, restituite dallo spazio con una qualità sonora difficile da afferrare, quasi senza direzione. Anche per questo, si tratta di un disco unico nel catalogo della band, fatto di risonanza e memoria, in cui quel riverbero irripetibile finisce per assumere il ruolo di un ipotetico quarto membro. Per questo nuovo capitolo il trio ha deciso di orientarsi verso un’atmosfera più raccolta, fatta di scelte misurate e spazi più intimi: il risultato è un suono più contemplativo, che respira con calma e invita a rallentare, regalando momenti di autentica sospensione. Non è un caso che “Törzs” significhi “Tribù”: questo disco parla anche di legami, di appartenenza, e di quella connessione al limite dell’ancestrale che può nascere tra chi suona e chi ascolta, proprio quando il rumore del mondo rimane sullo sfondo. Menedék – che si potrebbe tradurre in “Rifugio” – richiama quel post-rock dal retrogusto ambient in cui melodia e dolcezza si alternano a slanci più intensi, sempre dosati con discrezione. Le composizioni si muovono su coordinate affini a quelle di Mogwai e Explosions in the Sky, ma anche di Glories, you, infinite, Astralia o Yenisei. I titoli tradotti delle cinque tracce (“Un momento di infinito”, “Respirare”, “Voltarsi”, “Toccare terra”, “Casa”) descrivono una narrazione emozionale che invita al viaggio interiore e alla riscoperta del proprio centro, per ritornare alla nostra forma più essenziale.
Già nei dodici minuti iniziali di “Egy Pillanatban a Végtelen”, le chitarre delineano scenari di contemplazione profonda, con echi delle atmosfere più evanescenti e malinconiche dei Sigur Rós o dei We Lost The Sea. Le percussioni si muovono tra accenti marziali e tocchi più morbidi, accompagnando i riverberi cristallini in un crescendo graduale e mai ridondante. L’approccio degli ungheresi è riflessivo e misurato, non solo qui ma un po’ in tutto il disco: una scelta stilistica, più che un limite, che lascia spazio ad una pacatezza che permette alla musica di suscitare emozioni in modo molto naturale. Non mancano però passaggi più decisi, come in “Levegővétel”: dopo un inizio sognante, le chitarre si fanno più vigorose, bilanciando delicatezza e forza senza mai risolversi in un solo estremo. La batteria segue queste oscillazioni emotive mantenendosi su pattern piuttosto semplici, creando un’asimmetria che a tratti si avverte rispetto alla maggiore tensione espressiva delle chitarre. Una scelta che potrebbe riflettere anche il recente cambio in formazione: dopo aver contribuito alla scrittura dei brani, Zsombor Lehoczky ha lasciato la band e, più in generale, la musica. Al suo posto è subentrato Tamás Szijártó, il cui tocco più misurato, pur nel rispetto dello spirito originario, sembra privilegiare l’equilibrio all’impatto. “Átfordul”, a mio parere, è il brano più evocativo di Menedék: si apre con accordi sospesi e riverberi ampi che amplificano una dolce malinconia, fino alla svolta centrale in cui le distorsioni irrompono con decisione, liberando le emozioni trattenute. Da lì in poi, la chitarra pulita si fa più libera, intrecciando fraseggi aperti, come se qualcosa dentro si fosse finalmente risolto. Il brano si chiude tornando all’atmosfera iniziale, e nella sua struttura ciclica sembra incarnare il senso stesso del titolo, “voltarsi”: guardare indietro con lucidità, riflettendo sul percorso fatto; sostare un istante accanto al ricordo, e infine proseguire con un nuovo equilibrio ritrovato. “Földet Ér”, la penultima traccia, esplora territori più familiari al post-rock classico, con un crescendo affidato alle chitarre riverberate e all’uso insistente dei piatti; un episodio certamente più canonico, ma comunque funzionale all’economia del racconto. In chiusura c’è “Otthon”, che richiama il concetto del ritorno a casa – come accadeva già in Home degli Yenisei. Le chitarre si fanno più morbide, la batteria si ritrae, lasciando che siano solo le corde – da sole o insieme al basso – a guidare l’ascolto, tutto a beneficio dell’introspezione. Nella parte finale i fraseggi diventano più ariosi, e la musica acquista una leggerezza generale che bilancia, in retrospettiva, la malinconia con cui si era aperto il disco. È una chiusura che non esplode in slanci euforici, ma suggerisce la possibilità di ritrovarsi, finalmente, in un luogo che ci somiglia veramente.
In definitiva, la magia di Menedék si rivela ascoltandolo nella sua interezza, senza interruzioni. Potrà apparire familiare agli ascoltatori più esperti, ma è proprio lì che risiede la sua forza: nel modo in cui riesce a far tacere il mondo, e ad aprire uno spazio calmo, nitido, in cui tornare a sé. È un album che si apprezza di più nei (rari) momenti in cui si riesce davvero a rallentare: nel silenzio sacro della notte, nel breve istante in cui un’alba si lascia osservare, o mentre i colori del mondo scorrono fuori dal finestrino durante un rigenerante viaggio in macchina. In quegli attimi preziosi, spazio, tempo e musica diventano una cosa sola con la nostra mente. E Menedék trova lì il suo posto migliore.
(Pelagic Records, 2025)
1. Egy Pillanatban a Végtelen
2. Levegővétel
3. Átfordul
4. Földet Ér
5. Otthon7.0