Tra le band italiane contemporanee, poche suonano internazionali quanto i New Candys. The Uncanny Extravaganza, uscito il 30 maggio di quest’anno per Fuzz Club, dimostra quanto il loro immaginario – radicato nei Velvet Underground e nelle visioni lisergiche di Syd Barrett, ma contaminato anche dalla neopsichedelia dei Pond e dalle ombre dei The Black Angels – si sia fatto ormai del tutto personale. Muovendosi tra rock’n’roll, shoegaze e una forma di psichedelia oscura e allucinogena, il gruppo veneziano ha consolidato fuori dai confini una credibilità che in patria resta inspiegabilmente sottotraccia. E se all’estero vantano tour mondiali e uscite su etichette di rilievo, qui in Italia paradossalmente continuano a restare di nicchia. Proprio per questo aspettavo con trepidazione il quinto album: Vyvyd, del 2021, è da tempo uno dei miei dischi del cuore e lo ascolto ancora oggi con la stessa intensità della prima volta. Dopo anni di autoproduzione (se si esclude il debutto), la scelta di affidarsi a Maurizio Baggio (The Soft Moon, Boy Harsher) segna un cambio di passo netto: le sessioni diluite per tutto il 2024 hanno permesso di concentrarsi sui singoli brani nel dettaglio. “Volevamo che ogni pezzo fosse una sorpresa“, racconta Fernando Nuti. Un’intenzione che si riflette anche nella centralità dell’elettronica, che tra drum machine e sintetizzatori si intreccia con batteria acustica, chitarre oblique e bassi ora più incisivi – merito del passaggio di Dario Lucchesi dalle pelli alle quattro corde. Ne nasce un album fresco e moderno, capace di spaziare con disinvoltura tra estetiche diverse senza mai dare l’impressione di trovarsi fuori posto.
Fin dall’apertura con la potente “Regicide”, si percepisce una vibrazione più alta e libera: synth aggressivi, chitarre taglienti e un hook micidiale che si pianta subito in testa. L’onda d’urto prosegue con “Crime Wave”, già testata dal vivo, dove un riff fuzz danza su una sezione ritmica massiccia. Poi il respiro si fa liquido: “Breathe Me In” richiama le suggestioni oniriche di “Begin Again”, ma con colori più sfumati; voce romantica, drum machine anni Ottanta e linee di chitarra minimali, ridotte a scie di luce che emergono e spariscono tra i fondali marini. L’acqua è infatti il filo conduttore che tiene insieme tutto; una presenza che trasfigura e distorce, rendendo onirica persino la materia più ruvida. E l’immaginario subacqueo suggerito da Nuti nei testi – densi di metafore e allusioni criptiche – si riflette anche nella musica, che appare come filtrata da sotto il livello del mare, in una sorta di incomunicabilità sensoriale. Anche brani come “Aquawish” e “Gills On My Lungs” si muovono in questa dimensione: il primo fluttua in coordinate dream-pop con battiti sommessi e synth riverberati; “Gills On My Lungs”, al contrario, increspa la superficie con un riff spigoloso dal sapore post-punk (un po’ alla The KVB). Sono i sintetizzatori retrowave, però, che contribuiscono all’originalità del pezzo, perché aprono spiragli melodici luminosi senza tradire l’oscurità dell’impalcatura ritmica. “Night Surfer” è un brano veloce e diretto che rilascia adrenalina garage-wave prima di “You’ll Never Know Yourself”, in cui chitarra e voce si fondono in un ritornello ipnotico; il lungo break strumentale, costruito su un riff ossessivo, è uno dei più esaltanti di tutto il disco, e promette scintille deflagranti dal vivo. E se la meravigliosa “Wild Spaghetti West” gioca con l’estetica western e i cori morriconiani – come se Tarantino avesse diretto un western ambientato nello spazio – “Cagehead” vira verso territori urbani e martellanti, mescolando pulsazioni house con distorsioni industrial che evocano atmosfere claustrofobiche alla Nine Inch Nails. È un brano che pulsa di tensione e che si contorce sotto pelle, tra riverberi e loop sintetici, come una creatura marina che si agita nei fondali torbidi di un sogno distorto. Infine, c’è qualcosa di Thom Yorke nel modo straniante ed etereo in cui si apre “Final Mission”. È un brano che si dissolve senza gravità: niente batteria, solo voce, chitarre evanescenti ed effetti che perdono consistenza, come se ogni suono cercasse il modo più dolce per sparire e lasciarsi andare. L’ultima frase ripetuta sommessamente da Nuti, “And I’m glad I’ve met you”, sembra un ultimo bagliore nostalgico che sprofonda negli abissi, senza più opporre alcuna resistenza.
A conti fatti, The Uncanny Extravaganza è un album ispiratissimo che rinuncia a una forma prestabilita per seguire l’intuito e la scintilla creativa del momento; è il suono di una band che ha smesso da tempo di chiedersi cosa dovrebbe essere, e che ha iniziato a essere soltanto sé stessa. Ogni brano ha un’identità precisa, ma tutti insieme costruiscono qualcosa che non si spiega: un organismo fluido, pulsante, che prende strade sempre nuove eppure parla la stessa lingua. E anche nel caos apparente, c’è un filo invisibile che tiene tutto insieme: si arriva in fondo con le sinapsi in subbuglio e la voglia immediata di rimetterlo da capo.
(Dischi Sotterranei, Fuzz Club Records, 2025)
1. Regicide
2. Crime Waves
3. Breathe Me In
4. Night Surfer
5. You’ll Never Know Yourself
6. Aquawish
7. Cagehead
8. Wild Spaghetti West
9. Gills On My Lungs
10. Final Mission