
Gli americani Intercourse si formano nel 2013 e da quell’anno in poi non hanno mai smesso di suonare, comporre, registrare. Il noise rock della band del Connecticut è ottimo, questo va riconosciuto subito prima di qualsiasi altra analisi. Nei temi trattati da Tarek Ahmed, vocalist abrasivo, instabile, seducente con quel range vocale che stupisce ad ogni passaggio, si possono immaginare mondi non molto distanti dal nostro vissuto. Gli Intercourse mettono in musica tutta una serie di tragedie quotidiane che si abbattono sull’umanità intera. In questo disco si entra chirurgicamente nel dettaglio, il dolore porta a porta, la sofferenza previa ricetta medica in un farmacia polverosa di una sperduta provincia. C’è qualcosa di rurale nel loro modo di raccontarsi, nonostante temi sociali che attraversano tutto lo spettro di una società che si divide tra grattacieli, puntati come un dito al culo di qualsiasi divinità, e catapecchie che sfidano ogni logica di resistenza al benché minino alito di vento. I testi dei Nostri sono pugni nello stomaco, calci nelle parti basse – per molti, un secondo cervello che giustifica ogni loro azione – e vergate dolorosissime sulla schiena. Non è questione di essere bersagliati per il colore della pelle, l’orientamento sessuale, le idee politiche. Qui i ruoli di carnefice e vittima sono assolutamente intercambiabili, uno switch che ricorda sordide serate passate nei dungeon BDSM o nelle villette a schiera, scambiandosi partner come figurine, collezionando malattie e aumentando il vuoto interiore. Una musica che potrebbe essere la colonna sonora di qualsiasi film targato Quentin Tarantino. Una musica che ricorda tantissimo il mondo, ovviamente storto e malato, del buon Chuck Palahniuk, dove sorseggiare boccali ricolmi di liquidi sconosciuti è il migliore dei brindisi.
Il noise rock che si infetta con il death metal, l’hardcore, persino con i blast beat del black metal, con canzoni brevi – l’intero disco dura meno di 25 minuti – che hanno così la formula migliore per far male, regalando un ascolto gustoso, che mai annoia, che sa svelare i suoi segreti ogni volta che si schiaccia il tasto play. La band americana prende le distanze dal proprio paese, dalle folli regole che lo animano, per loro il nemico da abbattere è lo stronzo dirimpettaio, quello che consegna il latte a casa, il ragazzo distratto al suo primo giorno di lavoro, i petulanti figli di puttana tutti lustrini, sorrisi falsi, neve dal naso e cagate improvvise ai lati della strada. Dove c’è una relazione umana, c’è un fallimento; una famiglia distrutta, un rapporto padre/figlio gestito a silenzi, ossa rotte, cinghiate e casse di birra. Dove c’è un faro puntato, truccatori sempre pronti a fare di un insignificante John Doe il prossimo Cristo senza croce, con mille vergini prestate all’uso dal collega di un’altra religione. Dove c’è finzione, caricature, sagome di carne marcia che stanno in piedi senza alcuna logica, fino alla fine scontata, quella dell’oblio, un tubetto spremuto malamente a metà. Poi arriva la notte eterna, l’arrendersi, il bordo del precipizio, o del mondo conosciuto, terrapiattisti dell’animo umano, senza nessuno a cui dedicare l’ultima canzone. Gli Intercourse, per voce dello stesso Ahmed, sono questo: “Siamo musica per strambi e stravaganti. Sono cresciuto come l’unico bambino egiziano in una piccola città bianca. Sono un outsider e facciamo musica per gli outsider. Ogni volta che suoniamo in un posto lontano in cui non siamo mai stati prima, c’è sempre una persona che ci segue da anni ed è lì apposta per noi. Sono sempre le persone più strane nella stanza, e questo mi piace. Quella è la mia gente.” E sul disco nuovo, sempre il vocalist dice: “Ho scritto una montagna di roba, e poi circa due mesi prima faccio questa cosa in cui mi dico: ‘Tutto quello che ho scritto fa schifo, quindi riscrivo tutto il testo’. Poi, un mese prima di registrare, io e mia moglie abbiamo deciso di separarci, così ho cercato di dare una scossa ai testi e renderli più divertenti inserendoci un po’ di roba da divorzio. Ma credo di averli resi più deprimenti. E si parla molto del vuoto e di quel senso di vuoto che molti di noi cercano di riempire con cibo, alcol o sesso”.
How I Fell In Love With The Void è quindi uno sguardo a 360 gradi dell’uomo, quello solo, quello sociale ma anche il suo opposto. E’ uno sguardo che offre prospettive inedite, raccapriccianti, stomachevoli, dal buco del culo, un cannocchiale lercio che mostra un mondo per quello che è in realtà. Un cesso di una stazione di rifornimento nel nulla assoluto, o zone limitrofe (questo disco va bene anche leggendo Lansdale).
(Brutal Panda Records, 2025)
1. The Ballad Of Max Wright
2. Another Song About The Sun
3. Zoloft And Blow
4. Unsuccessfully Attempting To Parse Nightmare From Reality
5. Slightly Less Than A Feeling
6. Cadaver Resume
7. Running A Cemetery Without A License
8. Cryptid Divorce Court
9. I’m Very Tired Please Let Me Die
10. Family Suicide Gun


