È un’opinione piuttosto diffusa quella di considerare il post-rock un genere musicale che tende alla tristezza. Non c’è dubbio che molti album post-rock facciano della nostalgia malinconica il loro cavallo di battaglia, ma in realtà l’obiettivo principale del genere è quello di trasmettere emozioni attraverso l’uso creativo e non convenzionale di strumenti tradizionali, senza l’uso della voce. Questa libertà creativa può anche distogliere dall’ombra della malinconia, e ci sono dischi che possono invece offrire proprio quella sensazione di evasione spensierata e felice che è spesso fondamentale, soprattutto nei momenti in cui la vita ci mette alla prova. Ne sono un perfetto esempio gli A Sudden Burst of Colour, tre talentuosi musicisti scozzesi con una capacità innata di creare pezzi accattivanti e orecchiabili che suscitano emozioni positive. Il nome che hanno scelto per la loro creatura musicale, tra l’altro, riflette in pieno le atmosfere vibranti e ricche di colore delle sonorità che propongono: brani di post-rock strumentale che spiccano per vivacità e originalità e per il senso di sollievo che trasmettono. Negli ultimi anni mi sono spesso ritrovato ad immergermi in queste melodie quando avevo bisogno di staccare, lasciando volare la mente nella rassicurante e gioiosa leggerezza del suono che li caratterizza. E più li ascoltavo, più mi rendevo conto di quanto mi mancasse un album vero e proprio, in mezzo alla mole di singoli ed EP validissimi pubblicati negli ultimi dieci anni. In particolare, Ambivalence, EP del 2016, è un piccolo tesoro che merita di essere riscoperto, anche solo per quella meraviglia di “Blind Obedience”, decisamente uno dei miei pezzi della vita. In questi anni di ascolto, perciò, mi sono sempre affidato alle care vecchie playlist, pensando che questi ragazzi avessero una notevole capacità di produrre brani sempre azzeccati e sognando il momento in cui avrebbero fatto uscire un album intero. Poi verso la fine di dicembre dell’anno scorso, in un periodo non particolarmente buono della mia vita, è giunta come un fulmine a ciel sereno una nuova canzone: “Vertigo Season”. Mi sono ritrovato ad ascoltarla a ripetizione, trasportato dalla natura eterea della melodia principale, da quel delay anni Ottanta alla “Eye of the Tiger” (riportato in auge recentemente da The Weeknd e dai Nothing But Thieves), dal sottile uso dell’elettronica e da un senso di pura euforia, soprattutto quando la batteria intensifica il suo ritmo. Non credevo alle mie orecchie: un brano così sfacciatamente orecchiabile può essere anche un gran bel pezzo post-rock? La risposta, neanche a dirlo, è un gigantesco sì. Fin dal primo ascolto ho provato un’euforia incredibile, simile a quella che si potrebbe percepire dopo aver corso per un’ora nel paesaggio più bello del mondo, con le endorfine ancora in circolo e la mente che decolla in volo libero in mezzo a cieli coloratissimi. Mi riferisco a quella sensazione di entusiasmo e grinta in grado di convincerti che nella vita nulla ti è precluso, con la giusta determinazione e consapevolezza. Come se non bastasse, oltre al senso di dipendenza che mi ha instillato il pezzo (l’ho persino scelto come mio brano preferito dell’anno nella classifica di Grindontheroad), si è aggiunto l’annuncio che aspettavo da tempo immemore: gli A Sudden Burst of Colour avrebbero finalmente pubblicato il loro disco di debutto a fine gennaio. E che disco, signori.
Galvanize, questo il titolo scelto dagli scozzesi, si presenta con una copertina che cattura l’occhio con la sua illustrazione di un paesaggio urbano al tramonto, pieno di colori caldi e dettagli contrastanti. L’album è totalmente autoprodotto e viene pubblicato in modo completamente indipendente, una scelta che personalmente considero sempre positiva quando si tratta di mantenere un controllo totale sulla propria arte. In questo senso, gli A Sudden Burst of Colour non si sono affrettati a pubblicare un album solo per il gusto di farlo; al contrario, hanno preferito aspettare il momento più propizio in termini di ispirazione, dedicando tutto il tempo necessario a perfezionare un sound che già prometteva molto nel formato EP, e che ora come full-length raggiunge un compimento ulteriore. Un importante indizio sulla direzione di questo debutto ce lo offre il titolo stesso: Galvanize. La parola ‘galvanizzare’ ha un doppio significato: può indicare sia ‘stimolare energicamente, infondendo entusiasmo e vitalità’, sia ‘rivestire un metallo con un altro tramite un processo elettrolitico’. Questo doppio senso è voluto, proprio perché la città natale della band, Motherwell, è nota per la lavorazione dell’acciaio ed è stata la principale fonte di ispirazione per la creazione di questo primo disco, in cui il gruppo ha abbracciato ancor di più quella componente elettronica che ogni tanto spuntava timidamente nel loro catalogo e che qui dona alle composizioni una veste più nuova e moderna, sia dal punto di vista della produzione che dell’orecchiabilità. La dinamica degli otto brani in scaletta li rende ariosi e imprevedibili, e pur restando collocato nel grande calderone del post-rock, l’album risulta contaminato da diverse influenze moderne che col post-rock c’entrano poco e niente: in certi dettagli si sentono echi degli ultimi Coldplay, del synth-pop dei The Postal Service o di Owl City, dei Glass Animals di Dreamland, e persino qualcosa degli Alt-J. La presenza di elementi di elettronica e la libertà che ne deriva, però, non deve trarre in inganno: il disco è deliziosamente suonato con chitarra/basso/batteria, l’elettronica migliora solo l’ottima impalcatura sonora già presente. I toni delle chitarre pulite, tra l’altro, sono un vero piacere per le orecchie lungo tutti i 41 minuti del disco, magistralmente mixato da Calum Farquharson, bassista della band (e a quanto pare, ottimo producer). Ogni brano di Galvanize si distingue a suo modo: “The North Orchard”, con i suoi fraseggi sereni e distesi, tratteggia un’atmosfera di bellezza e determinazione francamente irresistibile; “Electric Century” è un pezzo travolgente, caratterizzato da una struttura catchy con versi e ritornelli; è presente anche un bridge più riflessivo e posato, che comunque non intacca la spensieratezza dell’insieme. “Pulsator,” già pubblicato come singolo nel 2021, propone sonorità sintetiche stile Collapse Under the Empire, con una batteria elettronica che ricorda i ritmi incalzanti di Tycho, il progetto di Scott Hansen. Non a caso il mastering è stato curato da Eric Broyhill, noto per la sua collaborazione proprio con Tycho, Fruit Bats e Crosses, il progetto elettronico di Chino Moreno. Il brano irradia un’energia pulsante, da cui il titolo, regalando sensazioni estremamente piacevoli, per poi sfoggiare un finale più in stile post-rock classico, a base di chitarre in tremolo riverberate. “Beneath the Green Cascade” è il mio pezzo preferito, ed è forse quello che descrive meglio l’atmosfera scozzese che ha ispirato il disco. Nei suoi emozionanti sette minuti di alti e bassi, il brano attraversa un ampio spettro di umori, da momenti di serenità rassicurante a picchi di grinta, ed è sostenuto da chitarre euforiche, sintetizzatori e pad, il tutto avvolto in una struttura notevole e arricchita da accattivanti elementi synth-pop. Molto bella anche la dinamica del mix, specialmente nel ritornello, dove le chitarre elettriche si fondono armoniosamente con quelle acustiche in secondo piano, il tutto enfatizzato dalla chiarezza cristallina del rullante nei fill di batteria. E che dire di quella melodia ascendente e grintosa verso la fine? Pura goduria. È un brano il cui ascolto, molto semplicemente, fa stare bene. Altro pezzo che mi è piaciuto tantissimo è “Threads of Time”, dal titolo evocativo come la musica stessa: i riff di chitarra, impregnati di riverbero, sembrano suonare le melodie del tempo, come se ogni nota fosse un’eco di un momento passato, un frammento di un gigantesco mosaico temporale che cerca di formare un’immagine più nitida. La tranquillità del paesaggio sonoro, che richiama la raffinatezza ambient degli Hammock, si fonde armoniosamente con dettagli elettronici che aggiungono freschezza e piacevolezza all’ascolto: nonostante la natura più introspettiva del brano, gli effetti sonori evocano un senso di spensieratezza che incanta e ristora l’anima. Questa elettronica catchy e spensierata fa capolino anche in “Chromium Rush”, e qui gli effetti si fondono in modo impeccabile ad un’atmosfera più riflessiva post-rock, tra armonie distese e aperture melodiche rasserenanti, soprattutto nel finale, debitore dei Coldplay prodotti da Brian Eno di Viva la vida or Death and All His Friends. Questa specie di senso di determinazione e incoraggiamento, per così dire, in un modo o nell’altro è presente in tutti i brani, eccezion fatta per la conclusiva “Silencer”: caratterizzata da umori più nostalgici e posati, questa traccia presenta chicche notevoli, come l’incastro impeccabile dei delay e dei riverberi con gli effetti ed un crescendo mite e solenne al contempo. A livello di sensazioni, “Silencer” evoca qualcosa di simile all’ultimo disco degli Slowdive, con una calma posata che oscilla tra una leggera malinconia e una tranquilla consapevolezza; anche qui l’uso sapiente di linee di synth ed effetti elettronici in mezzo a riverberi ampi e suadenti contribuisce a rendere il brano un degno epilogo.
L’album incarna tutto ciò che ho sempre apprezzato di questa band, e la miriade di miglioramenti sonori che ne arricchiscono ulteriormente il suono lo rendono a mio giudizio irresistibile. Galvanize è un disco che entusiasma ed emoziona, ricco di vita, musicalmente intrigante e caratterizzato da sonorità limpide, cristalline e decisamente moderne, oltre ad essere molto equilibrato nel bilanciare picchi di adrenalina e positività ad altri un po’ più trattenuti, ma sempre con un tono rasserenante e positivo. Potrei continuare a elencare le numerose qualità che mi hanno colpito, ma mi limiterò a concludere con un avvertimento: l’unico difetto di questo album è che, se lo ascoltate in autostrada, potreste essere talmente catturati dalla sua energia da dimenticarvi di prendere l’uscita giusta, con conseguenti ritardi e spreco di benzina. E parlo per esperienza personale.
(Autoproduzione, 2024)
1. Vertigo Season
2. Electric Century
3. Beneath the Green Cascade
4. Threads of Time
5. Pulsator
6. The North Orchard
7. Chromium Rush
8. Silencer