Adriàn De Alfonso, artista spagnolo che da parecchi anni vive in Germania, nella poliedrica e mai doma Berlino, pubblica il suo primo disco solista, Viator, che esce per la nostra Maple Death Records. Nei lavori precedenti, usciti sotto il nome Don The Tiger, il Nostro si cimentava in qualcosa di più abrasivo, tra sonorità latine, blues sporco, indie rock ed elettronica, rispetto a quanto realizzato in questo album. Certamente le radici della propria terra non vengono rinnegate, il suono caldo ci accompagna per tutte e tredici le composizioni (non possono esser definite semplicemente canzoni perché, sia per struttura e minutaggio delle stesse, sia e sopratttutto per attitudine e mood, trascendono dai consueti canoni ai quali, giocoforza, siam abituati) ma è tutto un suonare in rimessa, due passi indietro, così timido, rarefatto, intimista. Less is more, per capirci. Musica che viene ridotta all’osso, pentagrammi lasciati quasi intonsi, poche note ma tutte dannatamente precise e puntali nel disegnare melodie sognanti e passaggi / paesaggi mozzafiato.
Viator è probabilmente suonato in presa diretta, a tratti si capisce benissimo quanto alcune parti siano improvvisate, e la voce narrante di De Alfonso ci accompagna in una via ciotolosa, tra luci soffuse, passi incerti di ubriachi, gatti randagi che lottano per accoppiarsi, liquidi di dubbia natura, schiamazzi e pianti notturni. Dentro a questo disco si susseguono milioni di vite, come detto il suono è caldo, e data la natura acustica e gli strumenti usati è impossibile fare diversamente, ma ugualmente la tristezza struggente di un cuore spezzato fa capolino più volte. È la magia della Musica che si ripete, un miracolo che non conosce sosta e che colpisce ognuno di noi in modi sempre diversi. Adriàn De Alfonso sciorina le sue radici: tango, flamenco, sardana, bolero. Queste radici generano un albero rigoglioso: frutti electropop, una chioma retrò, foglie che cadono lentamente come serenate a finestre mai completamente chiuse. Il minimalismo che, incredibile a dirsi, suona ricco, sazia l’udito, calma l’animo inquieto. Una tavola di legno pregiato, le cui venature ci distraggono dalle brutture della vita. Una superficie liscia, su quale lasciar scorrere una mano, che indugia ma poi prende coraggio, e infine sdraiarsi nudi, lo sguardo rivolto al cielo e lasciarsi cullare dal contrabasso di Mike Majkowski e dalle percussioni di Andi Stecher, mentre i cori di Victor Herrero, Lorena Álvarez e Marcos Flórez paiono lamenti di animali lontani nel tempo e nello spazio. La voce di De Alfonso è un viatico tra paesaggi conosciuti che perdono i contorni man mano che ci si addentra negli ascolti, perché questo lavoro è subdolo, è sexy, è la parte buona di una droga.
Viator, in lingua madre “viaggiatore”, mantiene fede al concetto di spostarsi, di peregrinare, e le varie tecniche di registrazioni e composizione ne sono un’ulteriore conferma; una sei corde sgraziata, microfoni di scarsa qualità, finestre lasciate aperte, catturando così i rumori della strada, le vibrazioni e le tensioni, i sospiri e le risate, improvvisazioni scheletriche in camere da letto polverose e in bagni ciechi, persino ai margini del deserto. La natura e l’uomo che diventano una cosa sola, un organismo nuovo e, forse, definitivo. Questo album è, nel suo risuonare primitivo e ancestrale, il futuro che ha fatto il giro completo. Traguardo e partenza e traguardo e partenza e…
(Maple Death Records, 2024)
1. Esquejes de un buen samán
2. Pleamar
3. Arden
4. Verde virguero
5. Remeje
6. ¡Repliéguese la guardia toda!
7. Nido de sierpes
8. La tromba exacta
9. Coyuntura en el manglar
10. A vueltas con el paregórico
11. Postrer ciclón
12. La cara estúpida del ritmo
13. Voladura