(Napalm Records, 2015)
1. The Isle
2. The Thing that made search
3. Like read Foam (The Great Storm)
4. The Weedmen
5. To Mourn Job
6. The Light in the Weed (Mary Madison)
Nato nell’ormai lontano 2004, questo progetto proveniente da Heidelberg (Germania) è riuscito negli anni ha catalizzare sempre più attenzione su di sé. Nel 2006 gli Ahab ci regalarono, come primo album, uno dei capolavori del funeral doom odierno, The Call of the Wretched Sea. La loro ossessione per il mare e l’oceano è ben rappresentata fin dal loro debut album, che ruota attorno al concept del libro Moby Dick. Seguono altri due album, rispettivamente The Divinity of Oceans del 2009 e The Giant nel 2012, abbandonando in parte le influenze funeral del primo capitolo per scegliere dei percorsi più introspettivi e melodici.
Dopo esattamente tre anni, il tempo che intercorre tra tutti i loro album, gli Ahab tornano in studio per registrare The Boats of the Glen Carrig: ad attenderli ormai migliaia di fan sparsi per vecchi e nuovi continenti. Come sempre il titolo dell’album fa riferimento a un concept legato al mare, in questo caso Naufragio nell’ignoto di William Hope Hodgson, celebre scrittore britannico che ispirò niente meno che H.P. Lovecraft. L’album si presenta come seguito di The Giants, ma subito ritroviamo un “ritorno alle origini”, con catartici passaggi di pesantezza e densità che ricordano il primo lavoro della band. Per quanto l’album si apra con solo una chitarra pulita e una voce soave e malinconica ben presto ci ritroviamo immersi fino al collo da oceaniche sonorità funeral che come il mare ci portano alla deriva. Questa formula è stata già adottata dai Nostri nei lavori antecedenti, come a voler descrivere il passaggio dalla terraferma al mare. Essendo un concept album, la chiave di lettura deve andare in parallelo con il libro da cui è tratto, un romanzo che narra il naufragio della Glen Carrig e la successiva deriva su una scialuppa di salvataggio nel mare dei Sargassi. L’album è in sé di ottima fattura, ma manca in alcuni punti dei picchi caratteristici della band, risultando molto lineare nell’ascolto e privo dei grandi momenti emotivi ai quali Droste e soci ci avevano abituato. Da sempre gli Ahab sono in grado di modificare ritmo e atmosfera nei loro pezzi in maniera naturale e impercettibile; certamente anche oggi si dimostrano degli abili musicisti ben consci di come muoversi, ma con questa ultima fatica non viene espresso al meglio il loro estro creativo.
Riuscire a far conciliare il funeral doom con delle sonorità più vicine al post metal o comunque melodiche non è facile, si rischia sempre di scivolare; al momento però gli Ahab riescono a rimanere in un equilibrio perfetto, non sviluppando appieno però, in questa occasione, la loro bipolarità.
6.5