Quando si è in circolazione da parecchio tempo e si ha una penna prolifica, e fortunatamente ispirata come nel caso degli Årabrot, gli ascoltatori – e io sono prima di tutto questo – possono dormire sonni tranquilli, perché sanno che l’ennesimo parto discografico sarà una gioia per le orecchie.
Questo Rite of Dionysus nasce dalle registrazioni del precedente Of Darkness And Light ed infatti l’artwork del disco lascia pochissimi spazi a dubbi; inizialmente pensavo fosse un secondo capitolo, un concept in due parti, ma così non è. Se il precedente, che era un buon lavoro, scartava abilmente la maestosità di Norwegian Gothic – un lavoro che per chiunque avrebbe rappresentato un buco nero, capace di inghiottire qualsiasi nuova idea, ancor prima di diventare canzone e poi un disco completo – ecco che il nuovo album si sposta ancora un pelo più in là, lasciando scorrere qualsiasi rischio di autocelebrazione o facile richiamo a qualcosa di certo, di conosciuto e spendibile senza troppa fatica. Ma il duo, come detto in apertura di recensione, ha una tale ricchezza di idee, anche quando i richiami a band famosissime (Beatles e Pink Floyd su tutte) sgomitano parecchio, che un loro disco è sempre una festa. Una di quelle che rimandano all’infanzia, al conosciuto che è dentro di noi, a quelli odori che il nostro olfatto non scorda mai, istantanee indelebili di sensazioni mai sopite. Rite of Dionysus è un album che sa di terra appena concimata, di brezza primaverile su campi ancora bagnati di leggera rugiada, di parole sussurrate in famiglia durante i pranzi domenicali. Nelle canzoni ci sono gli echi di rituali antichi, ci sono profondissimi legami con la spiritualità, ci sono i morti e i fantasmi e i vivi a ballare, tutti assieme. Un album da falò sulla spiaggia, da piedi nudi sporchi dopo ore di gioco, di sudore – che sia fatica, che sia sesso, che sia entrambi: non conta davvero nulla -, di lacrime e di sorrisi. Kjetil Nernes ha da sempre portato la sua creatura verso mondi inesplorati. L’incontro artistico e sentimentale con Karin Park ha messo una pietra sulla sua strada. Un prima e un dopo.
Lasciate alcune asperità nei suoni, il rigore – e in parte una certa crudeltà nel messaggio musicale, nel non detto, nelle sfumature fuggenti di una chitarra, di un pianoforte, di un coro -, ecco che gli Årabrot stanno scrivendo da qualche anno nuove pagine – bellissime – di musica che abbraccia dolcemente il cuore di tutti noi. La capacità di mettere la nota giusta al momento giusto, di lasciarsi andare a piccole fughe strumentali oppure a lambire il minimalismo più estremo, asciugando al massimo i brani, giocando con tutta la gamma – infinita, a questo punto – di colori, sono alcuni dei pregi di questa entità artistica. Un album da apprezzare non solo per la sua qualità intrinseca, che è indubbia, ma anche per la coerenza artistica di un percorso ancora lontano da concludersi.
(Dalapop, 2025)
1. I Become Light
2. A Different Form
3. Rock’n’Roll Star
4. The Devil’s Hut
5. Pedestal
6. The Satantango
7. Mother
8. Death Sings His Slow Song
9. Of Darkness And Light