Gli Asarhaddon compiono dieci anni di attività e onorano questo traguardo pubblicando il loro secondo album in studio, Êra, dopo il debutto Reysa del 2020 (in mezzo, una manciata di EP che hanno tenuto il duo tedesco sulla bocca degli amanti del black metal meno convenzionale). Il disco, appena uscito per Vendetta Records, racconta di quattro re e delle loro vicissitudini realmente accadute nel corso della Storia. Quello che ne viene fuori è una sorta di diario musicale, un cantico diviso in quattro tracce, tutte oltre i dodici minuti di durata, dove la malinconia si prende per mano con il dolore, mentre la disperazione e la disillusione dipingono scenari romanticamente lontani nella mente. Christian Kircher alla batteria e Christian Koos, chitarra, basso e percussioni, compongono un’opera che, nonostante gli stilemi del genere, prende le distanze da tutto ciò – o quasi – che il black metal ha rappresentato in questi decenni. Ci sono certamente gli attacchi frontali, le chitarre sanno dilaniare in lungo e in largo le carni di chi ascolta, mentre la batteria si spinge a velocità spesso disumane. Tuttavia si nota tantissimo che queste canzoni siano state scritte da un gruppo che ama il post-rock, il punk, la new wave, e quel basso pulsante – la vera spina dorsale di questo Êra – spesso ne è il manifesto più eclatante.
“Der silberne Mond” suffraga quanto appena detto: un giro ipnotico di basso, la batteria lanciata a km di distanza, la disperazione di Nova, il cantante aggiunto, che gela il sangue nelle vene. La vita di Salmanassar III, che regnò in Assiria dall’858 a.C. fino all’824 a.C., è un tragico peregrinare tra battaglie, tradimenti, patti spezzati, famiglie distrutte. La seconda canzone, “Im tiefen Wald”, è una fuga dalle asprezze della vita di Commio, il regnante della Gallia settentrionale dal 57 a.C al 20 a.C. La foresta profonda del titolo, non è altro che un luogo dove prendere fiato, cercare un ristoro dai dolori della guerra. Ma questa non rimane troppo in silenzio, allunga la sua mano insanguinata e la chiamata all’ultima battaglia è seducente. La band sceglie di diluire il suo black metal con robuste dosi di new wave e post-punk, ben supportata da una batteria che, incredibile a dirsi, suona “calda”. Il DNA post-rock/post-punk si palesa ancora di più nel narrare la vita di Suiko, trentatreesima imperatrice del Giappone secondo il tradizionale ordine di successione, che regnò dal 592 fino alla sua morte, nel 628. Il testo è una prece, una richiesta di pace eterna. Kircher e Koss dimostrano anche in questa occasione il loro diverso approccio al black metal, andando a concepire un brano che è quasi pop, per quanto sembri di facile fruizione. Nonostante i suoi tredici minuti abbondanti. Nonostante le urla laceranti di Nova. Ma se pensavo che questo potesse essere il brano migliore, ecco che il disco presenta il suo apice con “Die roten Vögel”, una suite di diciotto minuti dove succede davvero di tutto: d’altronde se si racconta l’incredibile storia di Nezahualcóyotl, che visse nell’impero azteco dal 1402 d.C. al 1472 d.C, illuminandone il cammino, diventando un punto di riferimento per le generazioni future, gli Asarhaddon non potevano certo uscirsene con un brano semplice; il pezzo si divide tra momenti crudi, dove il richiamo della Fiamma Nera è fortissimo, ad altri dove si trova tempo per leccarsi le ferite, dove aprire la mente, meditare, scrivere il futuro e indicare la via, mentre tuoni minacciosi incombono e il finale riporta la furia iconoclasta che tanto ci piace ascoltare in un disco black metal.
I Nostri hanno scritto così un album davvero bello e alla fine dell’ascolto ci si ritrova provati, il ventaglio di emozioni è ampio. Lasciarsi trasportare nel passato è d’obbligo, tornare indietro per salvarsi e proiettarsi, nuovamente vergini, nel futuro.
(Vendetta Records, 2024)
1. Der silberne Mond
2. Im tiefen Wald
3. Ein letzter Frühling
4. Die roten Vögel