Mi accingo a scrivere questa recensione con una certa emozione, perché Penumbra, il debutto dei Barrens, è stato il primo disco che ho recensito per Grindontheroad nel 2020. Ritrovarmi oggi a parlare del loro secondo album mi fa un certo effetto: non solo perché cinque anni sono volati, ma perché in qualche modo mi riporta al punto da cui sono partito anch’io. Ascoltando Corpse Lights, infatti, la sensazione che ho avuto subito è stata quella di una nuova sicurezza nei tre musicisti svedesi: la stessa che riconosco anche nel mio modo di scrivere, oggi più naturale e meno incerto rispetto a quella timida prima recensione. D’altronde la creatività è fatta di alti e bassi, tra momenti di entusiasmo ed altri di smarrimento; con il tempo però il proprio linguaggio per forza di cose si affina, avvicinandosi sempre di più a quel che si vuole davvero esprimere. In Corpse Lights questa crescita si sente tutta: se con Penumbra i Barrens avevano attirato l’attenzione con un suono intriso di ombre e tensioni notturne, qui la scrittura rivela una padronanza più matura, e a tratti più luminosa. Pubblicato da Pelagic Records, il nuovo lavoro conserva l’impronta heavy aprendola a soluzioni più melodiche, con dinamiche ricche e ben calibrate: è un disco che respira in più direzioni, e che riesce a passare dalla densità di certi passaggi più intensi a momenti più atmosferici che si insinuano nella compattezza del suono. Proprio la convivenza di queste due anime, all’apparenza inconciliabili, finisce per essere la cifra più riconoscibile dell’album.
L’apertura lo dimostra subito: “Memory Eraser” si accende lentamente tra fruscii di feedback, pad atmosferici e un pianoforte lontano che disegna una melodia intensa. Ma ecco che al culmine emotivo arriva “The Derelict”: l’anima post-metal prende il sopravvento con bordate ipnotiche di batteria e riff pesanti, dentro cui trovano posto aperture post-rock ampie e luminose, integrate molto bene nel tessuto del brano. Proprio questa cosa mi ha fatto pensare ai We Lost The Sea, soprattutto nel passaggio fluido dalla tensione alla catarsi. La musica qua fa un ottimo lavoro nel descrivere l’ispirazione dell’album: le corpse lights, i fuochi fatui che guidano le anime nel loro ultimo viaggio, sembrano riverberare proprio in questi spiragli di luce disseminati nel paesaggio sonoro. Trattasi però di luce velata, simile a quella della luna, che rende l’oscurità non solo abitabile, ma anche sorprendentemente intima. Oscurità che ritorna elegante in “Sorrowed”, brano segnato da un’impronta new wave che richiama i Drab Majesty e in generale le declinazioni più fredde del post-punk. Cassa dritta e riff sinuosi dark wave aprono il pezzo, che poi si sviluppa in direzioni più vicine al post-rock, ma sempre con questo ottimo retrogusto gothic. L’intensità ricorda i God Is An Astronaut di Helios / Erebus, e il groove della batteria è irresistibile, soprattutto nei passaggi sincopati di charleston verso la metà. È il brano più lungo del disco (7:45), e nonostante questo si arriva alla fine senza accorgersene e anche piuttosto soddisfatti. Il fraseggio malinconico di “Periastron” invece si muove in zone di post-rock più classico: i colpi di cassa trattenuti, come battiti di un cuore, sostengono una melodia che si apre progressivamente al dialogo tra chitarre e tastiere. La nostalgia qui ha un respiro solenne, simile a ricordi sfumati che cambiano forma nella propria percezione, al punto da farsi quasi – irrazionalmente – leggendari. E questa sensazione è amplificata sia dall’effetto di saturazione del rullante, che dall’urgenza dei colpi alle percussioni. Il breve intermezzo di “Apastron” a seguire introduce “No Light”, dove chitarre cariche di pathos scavano un solco melodico sotto la morsa di una batteria possente; a tratti si sentono dei campanelli che filtrano tra le trame più pesanti, come bagliori che attraversano la coltre post-metal. Per una strana coincidenza legata al titolo, mi è venuto spontaneo pensare ai francesi Year of No Light, e in effetti qui riecheggia la loro stessa potenza quasi apocalittica. Il finale, però, rinuncia alla catarsi che ci si aspetterebbe, e preferisce sfumare in distorsioni e rumori bianchi molto stranianti. Con “Collapsar” si cambia registro: la batteria colpisce per pulizia e precisione, intrecciando doppia cassa e rullante con chitarre che ricordano i God Is An Astronaut di Epitaph. Sorprendono anche i sintetizzatori, ben gestiti nel mix, che aggiungono profondità al paesaggio sonoro; è un brano che tende al post-rock ma resta comunque ancorato al peso del post-metal, con riff distorti e una tensione di fondo che non molla mai la presa. Sensazioni che ho trovato molto simili a certi episodi del bellissimo A Single Flower dei We Lost The Sea; ho apprezzato particolarmente il modo in cui la batteria accelera per seguire la chitarra elettrica nel finale. “Remnants” apre poi uno spazio di ambient limpido, fatto di suoni delicati che evocano l’innocenza e la purezza delle foreste. I colpi di xilofono, ripetuti e cristallini, si intrecciano a melodie minimali, imprimendosi nella memoria come piccole scintille di luce. C’è una dolcezza disarmante in questa semplicità, che trasmette una calma profonda e quasi ipnotica, degna di un rituale: una pace che questa musica mi fa associare all’ultimo viaggio di un’anima. Quel viaggio arriva con “A Nothing Expands”, brano conclusivo – dal titolo bellissimo – che unisce la purezza del post-rock alla ruvidezza in stile Russian Circles. La batteria non perde un colpo: precisa, inarrestabile, con accenti che intensificano la sensazione di essere circondati dal suono, in balia di una specie di ritmo primordiale martellante che cresce sempre di più. Notevole anche la parte chitarristica, con fraseggi concitati e le immancabili chitarre in tremolo, qui molto efficaci nel trasmettere un senso di epica conclusione; il crescendo finale della sezione ritmica, poi, spinge davvero tutto all’estremo, descrivendo molto bene l’ossimoro del titolo: il niente che si espande fino ad avvolgere il tutto.
Corpse Lights è un lavoro maturo e senza sbavature; meno legato alla cupezza del debutto, ma altrettanto intenso e forse anche più a fuoco. La sua forza sta nella dinamica dei brani, che sanno mutare pelle con naturalezza, e in una scaletta costruita con intelligenza, sempre attenta a dosare tensione e respiro. Anche stavolta il mastering di Magnus Lindberg è un grande valore aggiunto, perché riesce a donare chiarezza al suono, facendo emergere dettagli preziosi anche nei passaggi più carichi. Alla fine resta l’impressione di un disco compiuto, che dentro ai contrasti lascia emergere una tavolozza più ampia di colori, capace di rendere l’oscurità dei Barrens meno rigida e al contempo molto più affascinante.
(Pelagic Records, 2025)
1. Memory Eraser
2. The Derelict
3. Sorrowed
4. Periastron
5. Apastron
6. New Light
7. Collapsar
8. Remnants
9. A Nothing Expands