Buñuel. Un nome a dir poco altisonante. Una musica che dal presskit viene descritta come ‘hardcore sanguinario, traboccante autentica attitudine e potenza’. Un disco inteso come ‘uno sforzo artistico privo di compromessi, estremista nelle intenzioni ed estremo nella sua realizzazione’. Una formazione che annovera tra le proprie file esponenti di spicco della scena alternativa nostrana e internazionale. Tante premesse, forse fin troppe.
Partiamo allora dalla prima nella speranza di trovare una cornice anche alle altre. La butto lì: di chi sarà la responsabilità nella scelta del nome? A giudicare dall’organico di cui si parlerà tra poco, scommetterei sulla figura del redivivo Pierpaolo Capovilla – ultimamente un po’ meno ubiquo e ingombrante rispetto alla figura pubblica che pareva essere diventato – che potrebbe essere rimasto ammaliato per l’ennesima volta dal fascino indiscreto della borghesia prendendo a prestito il nome di un grande artista del passato, in perfetta sintonia con la sua apparente predilezione per le riletture e i ripescaggi d’autore. Ma questa è solo un’ipotesi, e la percentuale che mi sbagli è alta. Se vi sia una sorta di continuità tra le sue idee in musica e le teorie di Marcuse, un legame vero o presunto con l’Artaud del Teatro della Crudeltà e la potenza visionaria delle opere di Luis Buñuel, non ci è dato a sapere. Stupido e soprattutto sbagliato sarebbe immaginare questo progetto come una proiezione del solo frontman del Teatro Degli Orrori, vista la presenza in squadra di altri pezzi grossi come Xabier Iriondo e soprattutto Eugene Robinson, e grazie anche all’assenza di quell’autoreferenzialità e verbosità profetica che a detta di molti aleggiavano come un’aureola di fumo (e poco arrosto) attorno al capo-del-Nostro. Incrociando queste informazioni a scatola chiusa il tasso di aspettativa/dubbio schizza alle stelle ma, se una cosa è certa, è che ascoltando il disco di surreale o straordinario c’è ben poco, anzi: tolte la chitarra a tratti fantasista ma non sempre di Iriondo e la voce istrionica di Robinson, il resto e il risultato complessivo è quanto di più attendibile una band noise rock possa proporre. E dell’hardcore precedentemente citato – storiella del ‘no compromise’ a parte e come se un po’ di tupa-tupa, i suoni grossi e il fatto di aver registrato un disco di getto in tre giorni fungessero da sigillo di garanzia inconfutabile – si sente solo un vago retrogusto.
Superata la prima traccia di ispirazione oxbowiana – disturbata da esplosioni timpaniche e dall’ugola tormentata di Robinson – già dalla seconda emergono le direttive soniche della band che si assestano su un noise robusto e forsennato che picchia duro ma al di là della botta lascia felicemente indifferenti. La formula si ripete in pressoché tutti gli altri brani: tribalismi percussivi asciutti che ricordano dei Big Black pompati di steroidi (anche se il cuore mi sussurra a denti stretti: “magari…”), basso ronzante e bastardo che riempie i pochi interstizi lasciati liberi dalla batteria serratissima e dalle sferzate di chitarra, e la già menzionata e riverita voce di Eugene Robinson a far da ciliegina sulla torta, una voce sulla quale non è facile esprimersi. Eugene Robinson è Eugene Robinson: è sempre parso a suo agio a fare qualsiasi cosa facesse e, lungi dall’essersi fatto addomesticare, anche qui svolge il suo porco lavoro fedele alla linea e fondamentalmente a se stesso. Ma la mia venerazione nei suoi confronti, rapportata a quest’ultimo progetto, mi ha fatto venir voglia di spararmi l’intera discografia degli Oxbow e gli mp3 dei Whipping Boy nell’arco di una sola giornata, così, per darmi conforto. Viceversa, chi poteva ipotizzare un mix tra la freschezza dei primi One Dimensional Man, l’imprevedibilità degli Uncode Duello e le atmosfere degli Oxbow farà meglio a rivolgersi altrove.
A Resting Place For Strangers non restituisce le emozioni scomode di un disco qualsiasi degli Oxbow, né pareggia la carica emotiva delle altre band di provenienza o supera chissà quali barriere in ambito musicale noise o hardcore. Forse però è riduttivo intendere i Bunuel in quest’ottica. Che il loro sia un side-project nato per gioco tra compagni di merende e occasione per qualcuno per schivare le sparute accuse di ostentato intellettualismo e mostrare di nuovo i testicoli? Prendiamo il disco per ciò che potrebbe davvero essere al di là della descrizione fornita da un ufficio stampa: uno sfogo diretto di quattro musicisti che si divertono a suonare assieme. Facciamo fede alla premessa iniziale del ritorno ad un suono primordiale e schietto, probabilmente quello alla luce del quale la maggioranza dei componenti s’è formata. La botta dopotutto c’è. Sotto questa luce si spiegherebbero allora certe somiglianze con i genitori e i padrini di quel suono, sempre giocando d’azzardo sul tavolo delle influenze:“Jesus With a Cock” e “I Electrician” potrebbero tranquillamente stare al posto di “Rabid Pigs” e “Starlet” sul primo ep Pure dei compianti The Jesus Lizard, mentre “Smiling Faces Of Children” prende addirittura a prestito (per non dire copia) l’incedere ritmico cadenzato di “Then Comes Dudley” del quartetto di Chicago e lo scaraventa in un delirio semi-industriale che però svapora nel nulla. Intrigante il suono stranito e straniante della chitarra di Iriondo che qui e là prende pieghe elettro-aliene e fa pensare ad un Helios Creed di primi ottanta tirato fuori dalla formalina e proiettato ai giorni nostri, così come la produzione sopraffina e strabordante del solito genio-Favero che strizza l’occhio a qualcosa di vagamente eighties (la sacra triade Big Black/Rapeman/The Jesus Lizard pre-MacNeilly viene scomodata spesso) e talvolta scimmiato di pop (prendete ad esempio “Me + I”) farcendolo di botta e che veste un disco tutto sommato scialbo del suo migliore abito da sera.
Ci si trova di fronte al lavoro sfornato da un possibile dream-team di eroi del rock alternativo che potrebbe far palpitare i cuori di alcuni fan irriducibili delle band di provenienza dei singoli componenti. Ma in definitiva serpeggia un dubbio atroce: visti i trascorsi di tutti – e al di là del recalcitrante conservatorismo che mi tiene stretto per le palle in queste occasioni – ce n’era davvero il bisogno?
(La Tempesta Dischi, 2015)
01. Cold or Hot
02. This Is Love
03. I, Electrician
04. Jesus with a Cock
05. Dump Track
06. Streetlamp Cold
07. Me + I
08. Smiling Faces of Children
09. Whipsaw