Tenendo conto delle diverse testimonianze riguardo le aspettative sugli sviluppi del doom metal provenienti direttamente dagli occhi di chi ha vissuto i suoi albori (come quella riportata da Mark Greening, in questa intervista), sicuramente non ci si sarebbe mai aspettato che questo genere diventasse un fenomeno così ampio ed universalmente riconosciuto, tanto meno che assumesse la moltitudine derivazioni e contaminazioni a cui è sottoposto oggigiorno. È dunque ulteriormente comprovato che ad oggi il suddetto sottogenere, così come molti altri, abbia giovato di tali contaminazioni proveniente da generi più o meno confinanti, fino a divenire una creatura multiforme ed in costante evoluzione, in grado di fornire all’ascoltatore una proposta ricchissima, che va dal doom rock/metal di matrice classica, che tuttora vive di una propria ampia e valida scena, fino ad arrivare alla sperimentazione ed alla contaminazione più radicale, passando per tutti i gradienti di oscurità che vi si trovano in mezzo.
Motivo per cui le promettenti giovani realtà come quella degli svizzeri Charlene Beretah risultano ad oggi quantomai fondamentali per lo sviluppo continuo di un panorama in costante ebollizione, costituendo dunque le indispensabili diramazioni che vengono estese da un corpo fondante che affonda le proprie robuste radici in un terreno fertile.
Ulteriore agente dell’avanguardia dedita alla commistione tra generi si pone, impietoso e con ragion d’essere, Ram, secondo lavoro dei Charlene Beretah, rappresentando il primo full length degli elvetici uscito l’8 novembre, in triplo formato CD/Digital Download/Vinile 12” tramite Division Records, seguito unicamente dal precedente EP Depraved / A Very Long Week (2016). Dai suoi albori ad oggi la band ha vissuto sostanziali cambiamenti, primo tra tutti l’espansione della line-up da due a tre membri, avendo reclutato il bassista Jean Goisse, nonché l’aver declinato la formula del tipico e ben realizzato sludge/doom metal di Depraved / A Very Long Week in un commistione assolutamente personale e creativa che in Ram aggiunge elementi blackened crust e stoner rock/metal, realizzando un alchimia peculiare e distintiva, che costituisce uno dei tratti migliori della band e che, se adeguatamente sviluppato, potrebbe far distinguere il trio svizzero nel vasto panorama in cui si inserisce.
Il disco apre il sipario sui 40:09 minuti che lo compongono con “Call of Darkness”, in cui un suggestivo breve intro di organo elettrico, droning, sound fx e sample vocale omaggia gli stilemi tipici del genere, per poi, senza troppe titubanze, riversarsi nel riffing stoner/sludge ampiamente ispirato dai colossi del genere come, oltremanica, Iron Monkey ed, oltreoceano, Eyehategod. Tale suggerimento stilistico viene trattato con cognizione di causa, diventando il leitmotiv del disco, che non lesina di groove e di melodia blues, ma senza mai divenire fine a se stessa, piuttosto legandosi al resto degli elementi presentati sul ricco piano compositivo, la cui abbondanza e giustapposizione di stilemi viene resa esemplare già dalla seconda traccia “My Dream”, ovvero un connubio personalmente e brillantemente interpretato tra armonie facenti eco ai fasti dei Kyuss, sezioni doom, più o meno distese, che ricordano i primi Monolord e delle vocals e pattern di batteria che attingono la propria ispirazione dal panorama blackened brust. Le acrobazie compositive sono irriverenti, talvolta scostanti, ma con gusto, e che non hanno remore nel prendere in contropiede anche l’ascoltatore navigato, passando da una suggestione all’altra tanto repentinamente quanto in modo ben curato, rivelando che il prodotto degli Charlene Beretah è multiforme non per un ostentazione di skill compositive, che in quel caso rimarrebbero fini a se stesse, ma per delle autentiche ragioni espressive, che non accettano limiti di genere e sottogenere. Tale ambizione/esigenza viene proposta oltretutto in un momento storico assolutamente adeguato ad accoglierla, potendo riservare ad essa lo spazio che si merita. Crocevia tra la prima e la seconda metà del disco si pone “Hurts”, traccia che ribadisce il clima uggioso di Ram, che penetra nelle ossa per tutta la durata dell’album, ma che soprattuto, in questa traccia in particolare, espone un brano di 11:09 minuti realizzato con maestria e cognizione di causa, riuscendo ad essere disinvolto nei passaggi tra parti doom, intermezzi clean e ritmiche lievemente più serrate, dimostrando di aver attinto a piene mani dalla lezione degli YOB in quanto a modulazioni ed intensità espressiva, chiudendo il suddetto brano con una straziante voce urlata che vuole essere un appello al mal de vivre, in cui si raggiunge quella che probabilmente è la vetta espressiva più notevole di tutto il disco, soprattutto, appunto, grazie alla voce di Charlene Petit che rimane un elemento cardine e di alto livello per tutta la durata del disco, esprimendosi con un pathos lancinante che riesce a smuovere qualcosa dentro. La produzione di Ram rappresenta un paradosso di per se e sicuramente tale aspetto tecnico va trattato con maggiore attenzione in una prossima release, poiché da un lato si ha la coerentissima scelta di registrare l’album in condizioni live, ovvero suonando in studio contemporaneamente, al fine di preservare un energia primitiva ed un interazione autentica che vengono ben percepite e che rappresentano dei valori aggiunti, dall’altra parte il mix risulta aver varcato, anche se di poco, la sottile linea che separa un comparto tecnico privo di fronzoli e minimale da una produzione raw che non rende pienamente giustizia al contenuto musicale presentato. Cionondimeno si evince quanto i suoni di partenza, alla base del carattere sonico della band, siano ben studiati, presentando la chitarra di Charlene Petit in una veste duale tra un fuzz saturo e punitivo ed un clean armonioso e risonante, caratteri arricchiti da adeguate modulazioni ed fx. Proseguendo per la rassegna di meriti bisogna annoverare il basso di Jean Goisse adeguatamente distorto, ma sempre intellegibile, tributando dunque la migliore tradizione sludge metal, e per finire il drumset minimale ma efficace di Thierry Beretah che richiama dei suoni vintage, riuscendo comunque a rimanere pertinente con il contesto degli altri elementi del disco ed al periodo in cui esso viene presentato.
Dunque Ram rappresenta un’evoluzione significativa del trio elvetico, che ha fatto i passi giusti nella realizzazione del suo primo full length, superando abilmente il rito di passaggio che esso costituisce, specialmente poiché la band ha dimostrato che nei tre anni trascorsi dal precedente EP, che sia per l’esperienza maturata sui palchi frequentemente calcati o per un’autonoma crescita e presa di coscienza musicale, di essere stata capace di sviluppare una commistione tra generi peculiare e del tutto distintiva, che se approfondita potrebbe diventare un trademark immediatamente riconoscibile, quindi strettamente legato alla band. Tale caratteristica può prendere in contropiede, ma se per tale motivo il primo ascolto lasciasse dubbiosi, i successivi vanno progressivamente a costruire un solido tempio dello sludge/doom Metal moderno in cui vi sono racchiusi i migliori stilemi del panorama, interpretati brillantemente dagli Charlene Beretah, in virtù dell’aver trovato la propria ragion d’essere in un’autenticità generata da un forte bisogno espressivo/artistico che non può lasciare indifferenti.
(Division Records, 2019)
1. Call of Darkness
2. My Dream
3. Hurt
4. Amazing Disgrace
5. Kurdes Game