L’ultimo decennio può essere certamente definito fervido in termini di produzione musicale (underground e non) per qualità, quantità e varietà fornita l’ascoltatore attento. Ciononostante parallelamente si assiste ad una “Sindrome dell’età dell’oro”, o per meglio dire una nostalgia di tempi mai vissuti, che nel caso di band come Crypt Trip è un’eccellente rivisitazione nonché tributo all’hard rock ed alla psichedelia settantiana. In questo frangente sarebbe opportuno dare un nome al mood che contraddistingue band come Uncle Acide and the Deadbeats, Graveyard, Kadavar, Church of the Cosmic Skull e gli stessi rocker texani sopracitati parlando di “60’s-70’s revival”, ovvero un’ispirata riproposizione dello stile musicale di quell’epoca d’oro di rock e psichedelia che coloro che hanno dai cinquant’anni in giù non hanno avuto il piacere di vivere personalmente, e seppure la sensazione data da quel tipo di musica affiancata a quegli anni non può essere riproposta in toto per chiare ragioni, l’intento di questa particolare ondata musicale è più che riuscito, non scadendo in una banale operazione nostalgia, bensì dando nuovo lustro a vecchie glorie. In questo caso specifico il viaggio a ritroso nel tempo proposto dai tre di San Marcos è ancora più imponente, potendo riscontrare in essi l’ipnotica psichedelia dei Jefferson Airplane, le lead di chitarre debitrici a Jimi Hendrix ed il mood selvaggio degli Steppenwolf.
Rootstock è l’ultimo full-lenght dei Crypt Trip uscito l’11 maggio 2018 via Heavy Psych Sounds Records, etichetta di orgoglio nostrano che annovera nel suo roster anche altre band di forti radici old school come Duel, Ecstatic Vision, High Reeper, Mothership ed i nostrani Black Rainbows. L’album chiarifica le sue intenzioni fin dall’azzeccatissimo titolo, volendo appunto essere un attento sguardo al passato, un ritorno alle radici piantate dal celeberrimo festival di Woodstock del ’69, disamina della scena musicale che vide un apice in esso, influenzando poi un intera generazione di artisti. La produzione di quest’album è di livello molto alto, messa in atto dal Firestation Studio (San Marcos, TX), rendendo godibile ogni sfumatura sonora proposta. La cura del suono da parte dei tre texani è eccezionale, frutto certamente di una estesa ricerca, culminata nella fedele riproduzione del suono vintage che è possibile ascoltare nei grandi dischi alla base del rock e dell’hard rock per come lo conosciamo oggi.
L’introduzione al full length da parte di “Heartslave” è assolutamente pertinente, accompagnando l’ascoltatore in un tuffo nel passato senza compromessi con la chitarra crunch di Ryan Lee (anche alle voci e piano elettrico) presto raggiunta da un impeccabile basso groove, melodico e travolgente di Sam Bryant. Il secondo “Boogie No. 6” sfodera l’intensa psichedelia intossicante di metà anni ’60 sullo stile dei Jefferson Airplane. Nota di merito va alle vocals di Ryan Lee e Cameron Martin (batterista) che riescono nell’arduo compito di far propria l’intenzione vocale eterea dell’iconica Grace Slick. Successivamente “Aquarena Daydream” e “Rio Vista” riconfermano la passione hendrixiana della band con delle linee di chitarra che vanno alla deriva verso la psichedelia sfrenata ma che subito dopo, abilmente, riescono ad essere compatte ed ispirate, ricordando i viaggi mentali proposti dagli Hawkwind, altra band a cui sicuramente i Crypt Trip hanno rivolto particolare attenzione. Saggiamente distillate sono le parti molto efficaci di piano elettrico che fanno da tappeto sonoro in background.
Ad aprire la seconda metà del disco vi è “Natural Child”, in cui si può apprezzare la qualità del driven-bass roccioso e solido, nonché della distorsione vocale, entrambi elementi che giocano un ruolo importante nell’immedesimazione del mood psichedelico della band. La batteria, particolarmente in questo brano, ma anche pressoché durante tutto il resto del lavoro, è incalzante, presente, fornisce una base ritmica impeccabile, arricchendo i pattern con fill ed acrobazie notevoli. Questa stessa energica batteria apre il successivo “Tears of Gaia”, dove stavolta la poliedrica voce richiama il primo Ozzy Osbourne dell’era Black Sabbath. Il brano continua ad esporre un idea di groove solida a cui difficilmente si può restare impassibili. Sempre di respiro sabbathiano vive l’intermezzo acustico “Mabon Song”, i cui arpeggi evocativi potrebbero richiamare l’intro di “Spiral Architect” da Sabbath Bloody Sabbath (1973). La chitarra acustica del precedente intermezzo continua la sua narrazione in “Soul Games”, che si propone di accompagnare l’ascoltatore verso la fine dell’album, mentre le vocals di Ryan e Cameron, ispirate e intricate di corri ed overdubs, tributano i fasti dei Blue Öyster Cult.
A fronte di un precedente EP (in cui si trovano tre dei brani proposti in questo lavoro) ed un primo full-lenght, Rootstock conferma la direzione presa dalla band di San Marcos, che vuole essere una macchina del tempo indirizzata ad un età d’oro che molti ascoltatori avrebbero voluto vivere, tra movimenti di controcultura e hippy, ma soprattutto propone un ascolto di qualità e ricco di sfaccettature che lo rendono un sentito omaggio ed una brillante riproposizione dei miti musicali che hanno influenzato e continuano evidentemente ancora oggi ad influenzare generazioni intere di musicisti. Traccia preferita: “Aquarena Daydream”.
(Heavy Psych Sounds, 2018)
1. Heartslave
2. Boogie No. 6
3. Aquarena Daydream
4. Rio Vista
5. Natural Childs
6. Tears Of Gaia
7. Mabon Song
8. Soul Games