Premessa: vi dicessi che sono un esperto, un appassionato, o anche semplicemente un ascoltatore occasionale di rap e hip hop vi racconterei una grossa bugia. Parlare di hip hop con me è un po’ come voler discutere dei principi della termodinamica con un babbuino, e le mie conoscenze in materia si fermano là dove s’è fermato il mio interesse per il 4/4 come fondamento e tomba di un genere e laddove è sfumata la curiosità per testi perennemente incazzusi e la rima a tutti i costi. Sull’immagine carica di ‘fotta’ tamarra e arrogante che di solito passa attraverso i media, poi, non posso nemmeno esprimermi, perché mi ha sempre fatto ridere tanto quanto la ghettizzazione in ambiti estremi e non – vedasi creste-punk e metallari vestiti da pirla o pittati di bianco – perché mi tirerei addosso le ire di molti lettori. Sono l’anti-hip hop per eccellenza. Ma allora perché scrivere proprio dei Dälek, vi chiederete?
Scrivo dei Dälek perché il combo del New Jersey costituisce per me un’eccezione alla mia ferrea dieta ‘rap-free’ nelle vesti di una vera e propria epifania, o l’inaspettato ponte che ha in parte colmato e saziato quel gap spazio-temporale di cui ero a digiuno facendomi percorrere 25 anni di musica alternativa nera (da Fear Of a Black Planet ai giorni nostri, per intenderci) nell’arco di una manciata di minuti, e unendo il mondo del noise e dell’ambient che già bazzicavo a quello dell’hip-hop. Forse starò minimizzando, con la vaga pretesa di poter già pontificare dopo un paio di ascolti di classe, ma il senso di sazietà che m’hanno dato le uscite per Ipecac nel corso di questi dieci anni mi offrono quantomeno lo spunto per celebrare quelli che saranno sempre a tutti gli effetti i miei beniamini del genere. Prendete le mie parole così come sono. Che svarione la prima volta che ascoltai il combo. Sovraeccitato da un abuso ciclopico di ADSL dopo anni di ramadan con un modem a 56k mi ero sfogliato una pila di riviste in cerca di roba da scaricare e il catalogo della label di Patton era tra i primi della lista, con picchi ineguagliabili come Isis, Tomahawk, Fantomas e gli ultimi Melvins, tanto per citare i celeberrimi. E poi questo nome nuovo: ‘Dälek’. Recuperai Absence e una volta iniettatolo al mio stereo mi sembrò di ritrovarvi gli industrialismi degli Scorn, noise in dosi massicce e un grigiore e degrado urbano declinati in musica e degni di un Alan Splet, insomma, roba per cui smadonnare, e anche tanto. La sua trasversalità mi aveva lasciato senza parole, perché m’aveva trasmesso lo stesso senso d’angoscia e di claustrofobia di band di matrice estrema, allo stesso modo di come mi avevano colpito le storture e i beat noise e il piglio originalissimo e sagace della musica e dei testi dei Uochi Toki. I testi, impegnati ma mai banali, li ho approfonditi solo in un secondo momento, perché al di là della loro difficile comprensione in tempo reale a sciamannarmi da quel primo trip su VLC fu proprio l’impatto sonoro. Ora, a distanza di anni, riascoltare dischi come From Filthy Tongue Of Gods And Griots o Abandoned Language mi scaraventa in una dimensione unica, che difficilmente riuscirei a ricreare non fosse grazie a quella precisa e inimitabile atmosfera ricreata dal gruppo del New Jersey.
Asphalt For Eden, uscito dopo una sosta durata oltre un lustro, riaccende la progressione inesorabile che tutto trascinava con sé in un moto perpetuo e avvolgente. Toni meno cupi questa volta, ma pur sempre inclini a quella densità dalla quale non si può sfuggire, anche se l’amalgama dei suoni lascia respirare un po’ di più l’ascoltatore rispetto alle uscite precedenti. Apparentemente ridotte le incursioni di strumenti atipici nel calderone sonico (vi ricordate gli echi di cornamuse e archi – o casa cazzo erano? – fusi in stratificazioni ambient degne degli Isis su Abandoned Language? Mi viene ancora la pelle d’oca a parlarne), si percepisce una insolita propensione al beat in ‘maggiore’: sfumature che a volte virano verso la shoegaze, non ‘allegre tout-court’, ma di certo più rilassate e meno opprimenti. “Shattered” apre con l’incedere serrato a cui siamo abituati, “Guaranteed Struggle” segue screziato dalle sonorità abissali del passato, mentre “Masked Laughter” stupisce per il suo breve intro di synth in maggiore e l’incedere mid-tempo arricchito da ripetuti glissati sognanti. Lo strumentale “6db” rincara la dose con un beat concentrico e venato di feedback e il disco si avvia alla conclusione con “Control” che smorza di un pelo la tensione e “It Just Is”, che, dimezzando i bpm del beat e filtrando voci e campioni con un delay, spara via l’ascoltatore in una piacevole dilatazione proto dub finale. In ultimo come non celebrare il mitico mantra recitato? L’inarrestabile e dinamica muscolatura di questa musica che è fatta per viaggiare, con anima e corpo, non solo attraverso i suoni, ma anche attraverso l’esistenza e le sue infinite sfaccettature, tra presente, passato e futuro in un tutt’uno ammaliante.
Non so bene cosa sia l’hip hop, ma qualsiasi cosa sia, credo che i Dälek l’abbiano portato ad un livello di bellezza e classe superiore. Siete dei grandi e il vostro è un ritorno tanto atteso quanto a modo suo indispensabile, parola di chi qui e ora non si esprime per partito preso o presunta autorevolezza, ma parla col cuore.
(Profound Lore Records, 2016)
01. Shattered
02. Guaranteed Struggle
03. Masked Laughter (Nothing’s Left)
04. Critical
05. 6dB
06. Control
07. It Just Is
8.0