Che il doom metal sia diventato nel corso di quasi tre decadi un fenomeno globalmente riconosciuto e di vastissima proporzione è, ad oggi, un dato di fatto. A questo trend è pertinente associare una frase recentemente divulgata sui social dallo stesso Mark Greening (Dead Witches, Ramesses, ex-Electric Wizard) allegata ad fotografia datata 1994 che ritrae gli Electric Wizard. “Before doom was cool”, scrive Mark.
Nell’affermazione di un veterano, annoverato tra le personalità musicali che hanno più cospicuamente influenzato e spinto, fin dal principio, l’intero genere, concorre anche una buona dose dell’inevitabile e giustificabile nostalgia di chi ha visto una creatura muovere i primi passi, fino a diventare un seguitissimo genere musicale, anche “cool”, come Mark ha – magari provocatoriamente – definito. In ogni caso, la frase del batterista di Wimborne è forte ed intrisa di una verità e di una consapevolezza che non vanno ignorate. In questa faccenda è inoltre possibile notare più lati positivi che negativi, in quanto con l’aumento del bacino di utenza e di creatori nel panorama doom metal, si assiste ad uno sviluppo di contenuti sempre più numericamente cospicuo nonché progressivamente migliore, dato il naturale innalzamento dell’asticella qualitativa che caratterizza i generi la cui offerta è ricca.
Certo vi sono epigoni interessanti, ma l’altra faccia della medaglia è una saturazione del genere che, giustamente attenendosi a ben precisi stilemi, spesso è ricaduto in un mero copia-incolla di quanto tracciato dai capisaldi del panorama, fenomeno che pare essere particolarmente prominente nel segmento caratterizzato dall’uso di voci femminili, che da una parte ha regalato perle destinate al proprio pantheon (vedi Feast for Water dei Messa ed Eternal Return dei Windhand, giusto per rimanere all’annata appena trascorsa) ma dall’altra ha generato prodotti di scarso spessore portati avanti dalla progressiva ed incessante fame di release del pubblico, ubbidendo alla semplice regola di domanda-offerta che sta alla base del sistema economico e dalla quale neanche il music business (di cui anche la scena doom ne fa inevitabilmente parte) è esente.
Inquadrato il panorama in cui risiede il nuovo full-length dei Dead Witches, possiamo dire che l’ago della bilancia verte ineluttabilmente verso l’eccellenza. The Final Exorcism non solo è valido, ricco ed originale, ma oltretutto suona come un riscatto agli occhi e soprattutto alle orecchie di chi credeva il segmento “occult” e female-fronted del doom saturo ed esausto. L’album si propone come un esempio da manuale di come questo segmento del doom dovrebbe essere sviluppato ad hoc oggigiorno, seppure pianti le radici del suo comparto tecnico in quel dell’iconico Chuckalumba Studios, dove vennero registrati anche Dopethrone (2000) e Let Us Pray (2002) degli Electric Wizard, nonché il debutto dei Dead Witches Ouija (2017). La produzione risulta di altissimo livello, ad opera di John Stephens, il quale ha opportunamente incanalato il flusso artistico della band attraverso strumentazioni analogiche vintage, valvole e registratori a nastro, traendo il meglio sia dal sound del passato che da quello del presente. L’uscita dell’album è prevista (attualmente soltanto in formato CD digipak, il cui artwork è stato finemente curato da Goatess Doomwych) per il 22 febbraio 2019 ad opera di Heavy Psych Sounds, che rinfoltisce il suo già abbondante e qualitativamente straordinario catalogo di release.
L’intro di stampo cinematografico “There’s Someone There” è associabile plausibilmente ad una scena colta da una pellicola horror della filmografia “cult”, e proprio questo tipo di immaginario domina il mood complessivo dei Dead Witches, che in questa nuova release, composta da sette tracce che fanno fede a quanto esposto nel ben accolto album precedente e riconfermano le proprie caratteristiche peculiari. La seconda traccia, nonché title-track, lascia immediatamente l’ascoltatore come in una sincope dopo il breve intro di chitarra clean che cede subito il posto a chitarra e basso estremamente fuzzati, come la migliore tradizione doom suggerisce, i cui riff sono perseguitanti, spiritati e determinati ad infestare la mente dell’ascoltatore per lungo tempo. Difatti, una delle caratteristiche più apprezzabili dello stile autentico della band risiede nella melodia cantabile, spesso catchy, che comunque non rinuncia alla ritualità trascendentale tipica del genere. Nota di assoluto rilievo fin dalla prima traccia è la voce di Soozie Chameleone, nuova acquisizione della band, che si inserisce con pertinenza e naturalezza nel mix, provvedendo a fornire ora l’urlo di una banshee, ora il sussurro seducente di una strega, e che in entrambi i casi gode di un interpretazione sentita ed emozionante, esattamente come le migliori vocals dovrebbero essere. Nel terzo brano “Goddess of the Night” continua l’imperterrito assalto di riff ad opera della chitarra di Oliver Hill, anch’esso nuovo acquisto della band, che non lesina in quanto a riff marziali ed evocativi che accompagnano verso un abisso in cui, nel momento in cui vi si è completamente sommersi, si è ulteriormente sormontati da della psichedelia di prim’ordine, espressa con maestria e rievocando lo stile dei grandi del passato, fino ad arrivare a sezioni alla soglia del noise, grazie ad una mescolanza di effetti di spazializzazione e modulazione finemente miscelati tra loro, creando un interazione intrinseca che da vita alle più interessanti texture sonore, come appunto nell’outro di questo terzo brano che viene supportato anche da un organetto dalle suggestioni ammalianti.
Il salto indietro nel tempo è nondimeno proposto dalla quarta traccia “When Do The Dead See The Sun” che propone un balzo temporale ancora più drastico, richiamando gli echi dello psychedelic rock del ’60, riempendo i suoi 1:38 minuti (che lo prefiggono più come un interludio) di elementi interessanti e di piacevole ascolto che acquietano il mood del disco a metà dell’opera, facendo prendere una boccata d’aria per poi tornare presto nel vortice dell’oscurità funesta di “The Church by the Sea”, in cui il basso di Carl Geary da un ulteriore dimostrazione di stile e tono, fornendo non solo delle solide basi alle parti di chitarra ed alla melodia tormentata della voce, ma risultando anche come valido elemento a sé stante, riuscendo nell’arduo compito di fornire da una parte una linea, diversi toni sotto lo standard tuning fuzzata all’estremo, mentre dall’altra provvedendo ad un timbro chiaro, “ringing”, ed intellegibile. La disamina dei singoli strumenti della band non può che continuare con la quarta (su quattro) nota di merito per la batteria di Mark Greening, che negli anni non ha perso un colpo, rendendo il suo stile ancora più inconfondibile e permeo di marce impietose, pattern punitivi, tamburi marziali e piatti annichilenti che ora riempiono il mix furiosamente, ora rievocano campane funebri, segnando con i propri rintocchi la fine della luce, annunciando una notte eterna, dominata dalle visioni tormentanti che in The Final Exorcism perseguiteranno l’ascoltatore dall’inizio alla fine, non conoscendo mai un momento che sia fuori dai migliori standard dell’horror doom. Sunto di quest’ultima opera dei quattro inglesi è l’ultima traccia “Fear The Priest”, rilasciata come singolo prima dell’uscita dell’album, in cui la tipica orecchiabilità dei ritornelli della band è godibile nella misura in cui le melodie sono innanzitutto cantabili, ma ciononostante non poco incisive e significative, lasciando un segno che in quest’ultimo brano è un profondo e spietato marchio a fuoco il quale non vede risentimenti ne retrocessione dalla sua furia, dando il colpo di grazia all’eventuale spiraglio di luce rimasto nella mente e nelle orecchie dell’ascoltatore. Quest’ultimo, se abbastanza affamato, arrivando al punto ultimo dell’album di certo sentirà il bisogno di continuare l’ascolto, quindi potrà solamente che ripercorrere spontaneamente le due release della band ed augurarsi che questo non sia letteralmente l’esorcismo finale dei Dead Witches, che con quest’album hanno innalzato abbondantemente la sopracitata asticella qualitativa del genere, rendendo The Final Exorcism un instant classic che lustra i migliori stilemi del panorama e li esalta con la maestria artigianale che un artista di bottega mette nel trasmettere la sua passione e la sua arte ai suoi allievi, che sono invitati ad apprendere a questo cenacolo del doom metal. Traccia preferita: “Fear The Priest”.
(Heavy Psych Sounds, 2019)
1. There’s Someone There
2. The Final Exorcism
3. Goddess Of The Night
4. When Do The Dead See The Sun
5. The Church By The Sea
6. Lay Demon
7. Fear The Priest