Affrontare un disco della band olandese Defacement è una vera prova di forza. I ragazzi di Utrecht nascono nel 2012 con il nome Deathcrush e i loro esordi vedono sposare la fiamma nera del black metal. Passano gli anni, sette per la precisione, e nel 2019 pubblicano il debutto Deviant scegliendo l’autoproduzione. Il sound è ancora legato ai regimi del gelido, eterno inverno, con una batteria che non conosce sosta e pesta qualsiasi pelle, anche umana, possa capitare a tiro – dietro i tamburi si siede Mark Bestia, mai come in questo caso: nomen omen – mentre le chitarre di Khalil Azagoth incidono solchi profondissimi sui padiglioni dell’ascoltatore, diventando terreno rigoglioso per la voce demoniaca di Forsaken Ahmed, dotato di un rantolo selvaggio, il cui utilizzo è di fatto un quarto strumento in campo. Un debutto che mostra fin da subito la qualità di scrittura dei ragazzi di Utrecht che col successivo Defacement, dalla copertina oscenamente bella, alzano il tiro, dimostrando al mondo che la musica estrema, qui un death metal cacofonico, dissonante, schizofrenico, può diventare un’altissima forma d’Arte. Il secondo lavoro è lava incandescente, la voce di Ahmed è ancora più nera, becera, violenta; i brani, lunghi anche nove minuti, sono una finestra sulla fine del mondo e completare l’ascolto è un calvario paradossalmente piacevole.
Capirete bene la trepidazione che accompagnava questo terzo album, Duality, che almeno nella struttura – piccoli brani strumentali, brani mediamente lunghi, addirittura una mezza suite che supera il quarto d’ora, la title-track – ricalca il precedente ma… ecco, il ma arriva ed è un piacere farne la conoscenza. I Defacement riescono a sorprenderci ancora, a spingersi oltre, e ho l’ardire di affermare che oramai siano una delle stelle del firmamento modern death metal (non so se esiste un movimento simile, in caso vogliatemi versare i diritti, grazie). Dopo l’iniziale “Optic”, due minuti che strizzano l’occhio all’elettronica, “Burden” è il primo brano cantato, dove il gusto melodico di Azagoth ci regala aperture da brividi e un assolo che pare suonato da antiche divinità lovecraftiane. Quasi dieci minuti che scorrono via, lasciando macerie e futuri incerti. “Vagus” mette un po’ di ordine, con una sequenza di rumori, versi di dubbia natura e provenienza, portandoci al cospetto di “Barrier”, bipolarismo musicale dove la batteria crea scenari sempre inediti e le chitarre, prima violente, poi suadenti, giocano a rincorrersi per tutta la durata del brano. Alla terza strumentale, “Facial”, i suoni si fanno più rarefatti, quasi onirici, ed è giusto sottolineare che per i terroristi sonori olandesi questi momenti sono strettamente legati con i rispettivi brani cantati. Una sorta di biglietto da visita. “Scabulous” ci tende la mano e la sua stretta è vigorosa, anzi, è violentissima, lasciando briciole di ossa dappertutto. I suoni si fanno duri, siamo quasi ai confini con il brutal death, il cantato a tratti è davvero animalesco, un quadrupede sgozzato durante i suoi ultimi attimi di vita. Una traccia che non mi aspettavo, una telefonata nel cuore della notte che rappresenta un prima e un dopo nell’esistenza di una persona. “Hypoglossal” è l’ultimo attimo suonato senza voci: sempre meno elettricità e cattiveria, più spazio a elettronica, effetti, rumori, immaginazione, terrore puro. Perchè la vera bestia è qui, signori miei: con i suoi sedici minuti “Duality” è il viaggio, è la partenza, è la meta, è la metà ma anche l’intero, è materia, è antimateria, è un buco nero, un what if, uno scherzo finito male, una lacrima di acido solforico sulla guancia di un Pierrot, uno sguardo nel pozzo, è il pozzo stesso, è la siccità dell’anima.
La canzone perfetta per chiudere un disco potente, bellissimo, crudele. Tre album, tre centri. Il futuro è adesso.
(Unorthodox Emanations, 2024)
1. Optic
2. Burden
3. Vagus
4. Barrier
5. Facial
6. Scabulous
7. Hypoglossal
8. Duality