Nell’approntare questa recensione avrei voluto fare un gioco: ascoltare il disco ragionando come fosse un debutto di una band nuova, ai suoi esordi. L’avrei approcciato così per scrollarmi di dosso tutti i facili trappoloni che una band enorme come i Deftones si portano dietro. Troppo autorevoli, loro, per la Musica tutta; troppo influenti, gli album, per concedermi un giudizio sufficientemente distaccato e oggettivo. Nonostante non sia di primo pelo, che scriva di musica da qualche anno, che sia un ascoltatore praticamente da sempre, ecco, nonostante questo giubbotto antiproiettile, i colpi della band di Sacramento arrivano al bersaglio grosso con estrema facilità e disinvoltura. Quindi ho premuto il tasto play – diverse volte in queste ore, per una full immersion totale – e ho lasciato che private music scorresse libero, intrepido, senza briglie da tirare. E la Magia dei Deftones si è ripetuta per la decima volta, come mai ha smesso di fare in trentanni di Storia. Per tutto questo periodo si sono cercate definizione adatte per illustrare il sound dei Nostri; ma come fai a etichettare qualcosa che al suo interno prolifera mondi diversi? Come si può pensare di catalogare una band che ha fatto della ricercatezza, del melting pot, del confondere le acque aggiungendo ingredienti misteriosi a più, ecco, dicevo, come si può considerare di ridurre il tutto ad una sola parola? Bisogna essere folli o, più prosaicamente, non amare davvero la musica. L’Arte è una cosa che non necessita di barattoli, di ripiani ordinati, di inventari. L’Arte di Chino Moreno e soci, poi, ancora meno.
private music è un disco ottimo, quasi meraviglioso. Ma è anche sconfortante per chi ama la critica portata all’eccesso sotto la lente di ingrandimento – o di un mirino di un fucile di precisione. La cosa affascinante è che si arriva a due così diverse impressioni, Ying e Yang oserei dire, percorrendo la stessa strada, quella lastricata da undici canzoni designate a diventare dei classici per gli inventori – assieme ai KoRn – del nu metal (questa sì che è un’etichetta corretta, storica, fondamentale). private music è un lavoro commemorativo. Con esso i Deftones non avvalorano nulla di nuovo, non spostano il loro songwriting in nessuna direzione; sono qui, ora, dove sono da sempre. Con innata grandezza, giocano da vincenti, sporcandosi da sempre le mani, perché il talento è nulla se si limita a ciondolare, a muovere foglie morte dall’albero. private music è un album rubicondo, di quel sangue che serve per cristallizzarsi in un attimo eterno. I Deftones sono vampiri, si nutrono del loro stesso sangue, versato a litri sul pentagramma, per mantenersi giovani, componendo musica che è la colonna sonora di una vita globale, collettiva, che unisce tutti in questo album dei ricordi, questa memorabilia, una Kodak che sforna ricordi perpetui, dove la stirpe diventa afflizione, esaltazione, letizia, rabbia, felicità, disillusione. I Deftones sono la colonna sonora che ha attraversato due generazioni – almeno! – espandendo il concetto di famiglia, rendendolo universale. Siamo stelle del firmamento. Alcune eterne, altre morte, alcune cadenti, altre ancora da scoprire. Il decimo album che potrebbe avere uno zero spaccato in calce a questa recensione, oppure il massimo del consenso, perché i numeri si portano dietro di loro un creato smisurato ed è così semplicistico imbottigliarsi dentro codifiche stantie, comode da usare e riconoscere. Ma tutto questo sarebbe l’antitesi per i Deftones. O l’antimateria. private music è un rompicapo. private music è un paracadute. E se davvero si vuole la ricetta per un piatto sopraffino: “my mind is a mountain” è il proscenio dove Chino Moreno fa il sornione, gioca in scioltezza attraverso le sue infinite tonalità, con una band che struttura musica con incastri stilisticamente impossibili per chiunque; la medesima opera avviene in “souvenir”, un caleidoscopio che mostra tutte le sfaccettature dei Nostri: istanti rabbiosi, vocalizzi tra il disperato e il sensuale – da sempre Moreno è sinonimo di una sensualità elegante, notturna, vellutata – break atmosferici e una coda strumentale che non è certo una mera masturbazione di Frank Delgado, il quale sancisce per l’ennesima volta, su tutte le tracce del disco, di amalgamare il suo dj setting con le sfuriate chirurgiche di Stephen Carpenter e la sua sei corde di fuoco (“ecdysis”, una gemma pop setacciata dalla carica rude della band; “locked club”, midtempo aggressivo, oscuro, a tratti in zona Meshuggah). Il drumming ipercinetico di Abe Cunningham illumina tutto il disco e diventa una supernova nei momenti più convulsi, quelli più diretti e meno sovrastrutturati (come “cXz”, violento ma ugualmente portatore sano di genialità, o alla maniera di “milk of the madonna”, che è rockeggiante, d’assalto, una piacevole riscrittura di hit del passato, energetica, anche se un pizzico telefonata in alcuni passaggi). L’anima romantica, che strizza l’occhio alla new wave, al dream pop, è “infinite source”, che squarcia le nubi del cielo, una deferenza a Billy Corgan, canzone da fine estate, da promesse infrante e cuori spezzati, malinconico il giusto; sentimento che in “i think about you all time” trova il suo zenith: una power ballad con strofe delicate, gentili, intrise di dolore, con un chorus suggestivo ed un finale epico, struggente. Un brano emotivamente devastante. “cut hands” invece è il ritorno nei sobborghi della città, nelle vie povere, dove nasce il dissenso e muore la speranza. Rap metal, hip hop rock, anima nera che vibra e brucia, arrembante, con Chino Moreno che sfoggia il suo guardaroba vocale con inesauribili sfumature e differenti registri e tutto questo in soli tre minuti (curioso il sample dei Prodigy, che calza a pennello, un pizzico di lucida follia) mentre “~metal dream” prende la luce prismatica di “souvenir”, accentua l’amore per il metal anni Novanta, con un drumming tirato, un riffing mai domo e break inaspettati. private music chiude gli occhi e la memoria di chi ascolta con “departing the body”, un’altra power ballad, fumosa e nottambula, alla Cohen, con echi concettuali tanto cari ai Tool di inizio carriera. Una canzone carica di pathos, un tappeto – rosso sangue, ça va sans dire – sonoro sul quale uno strepitoso Moreno si lascia andare ad una performance sublime.
Per tutti questi anni si sono spese fin troppe parole per cercare la soluzione del mistero chiamato Deftones. Una band che è nu metal, che è rock alternativo, che pesca a piene mani dal punk, dal dream pop, dalla new wave, dal grunge, dal metal estremo, dal rap, dai club e dai dj set, dalle colonne sonore. Prende, plasma, riconsegna, dona, insegna la via. Dischi incredibili, un autunno piovoso per tutti, un estate indimenticabile, il passaggio tra adolescenza e età adulta, dal pogo al ballo lento, dal correre spavaldi verso il sole a ritrovarsi con la schiena curva e i piedi stanchi; un percorso artistico senza eguali, una platea di fan eterogenea, abbattute distanze, geografiche e sociali, etniche e sessuali, la musica che dal lontano 1988 è un flusso costante, trascinata, dolce e impetuoso, seducente e rilassante, riottoso e pacifico. private music potrebbe essere un ultimo lascito, l’album di addio, una foto in bella vista. Non possiamo sperare di meglio, non possiamo attenderci oltre, la vetta è conquistata, consolidata, resa ospitale. Da qui si gode di un’ottima vista. La migliore, l’unica.
(Reprise Records, Warner Records, 2025)
1. my mind is a mountain
2. locked club
3. ecdysis
4. infinite source
5. souvenir
6. cXz
7. i think about you all the time
8. milk of the madonna
9. cut hands
10. ~metal dream
11. departing the body