L’ombra proiettata dalle mura del cimitero di Giavera del Montello sul nostro camper non ci ha permesso un risveglio idilliaco, proprio no. Il caldo soffocante di questo secondo giorno di Disintegrate Your Ignorance Fest già inizia a farsi sentire alle 9 di mattina. Sarà una lunga giornata sulfurea con un bill di tutto rispetto, l’inizio è previsto per le 18 e memore del giorno prima sono sicuro che l’orario sarà rispettato. Ho tutto il tempo per rendermi una persona rispettabile e preparata al carico di frequenze violente che anche oggi invaderà i miei apparati uditivi e che farà vibrare le mie membra. Una doccia per togliermi il sudore, lo sporco e la stanchezza del giorno prima e un buon pranzo tra amici con vista sulle tombe è proprio quello che ci vuole.
SABATO 05.08.2017
Quella poca strada che si frappone fra il nostro “accampamento” e la soglia del festival, nemmeno cinque minuti a piedi, è comunque faticosa da fare sotto un solo cocente, percepisco il caldo ancora più opprimente del giorno prima ma mi sento ben più fresco di venerdì. Anche oggi la birra scorrerà a fiumi, come il sudore che sembra non fermarsi mai. Intorno agli stand e al bar e nell’area campeggio vedo con piacere un maggior numero di partecipanti. Quando manca poco all’inizio dei concerti, il primo palco è quasi pronto, con lo staff che prepara gli ultimi dettagli prima di iniziare le danze. Non li invidio a lavorare con questo caldo per il nostro divertimento, e pensano anche a tutto il resto. Ad esempio, di immondizia in giro non se ne vede, tutto è pulito! Io intanto continuo a guardarmi intorno e sudo come un ossesso, sono praticamente attaccato alle spine per l’acqua. Dopo aver riempito un grosso bicchiere mi piazzo vicino al primo palco, ma di lato, all’ombra. Si inizia alle ore 18, orario rispettato. Mi spiace un po’ per i ritardatari.
DIE ABETE
Dall’Umbria e più precisamente da Terni questi miei corregionali aprono il secondo giorno di Disintegrate con il loro post-hardcore storto ed energico. Due chitarre e due batterie sono la formula propostaci: canzoni che scorrono all’impazzata, esattamente come questi musicisti che tengono il palco sfidando le alte temperature senza risparmiarsi. Sicuramente il più sventurato di questi è il batterista principale che picchia le pelli a più non posso, nonostante abbia il sole che gli arriva direttamente sulla schiena per via della posizione sul palco delle due batterie, non una bella situazione. Vorrei quasi andare a cercare un grosso ombrellone e fargli un po’ d’ombra, ma dopotutto che figura ci farebbe? Non sarebbe per niente una cosa HC. Ma a quanto pare lui resiste bene; chissà quando va di blast beat che temperatura corporea raggiunge!? Il cantante per i primi pezzi si occupa solo della voce per poi fare da metà repertorio in poi una spola continua tra microfono e la seconda batteria (quella all’ombra), i due chitarristi a lato naturalmente non stanno li a pettinar bambole e suonano distribuendo accordi dissonanti e botte distorte ad un pubblico non ancora numeroso, ma che aumenterà con il procedere della serata. Segnaliamo che i Die Abete ci regalano ‘’Sono un ragazzo di strada’’ una cover de I Corvi, gruppo beat italiano di fine sessanta, inclusa nel debut album dei ternani, Tutto o Niente. La prima mezzora di musica è andata.
HUNGRY LIKE RAKOVITZ
Spostarsi nel palco più grande mi rende molto contento e non soltanto per la maggiore ombra disponibile, ma soprattutto perché questi quattro bergamaschi mi piacciono un sacco. È la terza volta che li vedo live e so già quello che mi aspetta: trent’anni di rock estremo distillato e tanta passione. Non una sbavatura nella performance, che pesca brani soprattutto e giustamente dall’ultimo disco Nevermind the Light uscito l’anno scorso. In mezzo a noi spettatori, a terra davanti al palco, il magrissimo Rubens, voce degli Hungry Like Rakovitz, armato di microfono munito di un lunghissimo cavo ci intrattiene oltre che con strilla disumane anche con un po’ di ‘’giocoleria’’ con il suddetto, cercando di caricarci e dando qualche spinta qua e là girando tra il pubblico (ci scuserai Rubens ma eravamo troppo accaldati per fare qualsiasi cosa). Sopra il palco tutti gli altri componenti di questa macchina da guerra del metal nostrano sono un po’ statici, ma esecutori più che ottimali. Con questo grindcore imbastardito da hardcore e black metal con stop and go come se non ci fosse un domani è stato un vero peccato non poter creare un mosh degno di questo nome. L’unica vera pecca risiede nel suono del basso e della chitarra, che mal si amalgama al resto dando un effetto di saturazione che sporca il tutto. Niente di estremamente grave, per carità, ma qui si poteva fare di meglio, quasi come per gli Ufomammut il giorno prima. Avanti i prossimi.
SELVA
Mi metto tra le prime file e sono curiosissimo, visto che è la prima volta che li vedo dal vivo. Ho molto apprezzato il loro debutto Life Habitual, molto particolare e melodico, un po’ meno invece eléo, loro ultima fatica uscita ormai da più di un anno. Ed ecco comparire sul palco il terzetto lodigiano dedito ad un post black metal ormai allineato allo standard internazionale, ma di sicuro impatto: tremolo picking e blast beat collerici sono pane quotidiano per questi ragazzi, che li intervallano a parti più melodiche durante tutto l’act. Fisicamente tengono il palco molto bene, non si può proprio dire che siano immobili, tutt’altro, e nonostante sono quasi le 20 il sudore scende copioso anche dalle loro fronti. Menzione speciale per il batterista, me lo sono goduto alla grande ha un modo di suonare nervoso e pazzo, picchia sui fusti e sui piatti come un fabbro sull’incudine, spaziando con il viso ad espressioni affaticate o di pura gioia passando a vero odio per il suo strumento, in quanto sembra malmenarlo in maniera sadica veramente. Le canzoni lunghe e dilatate si fondono l’una con l’altra fino alla fine del tempo stabilito. Le loro ultime composizioni dal vivo sono più energiche e di maggiore effetto di quanto mi siano sembrate da disco, il pubblico li ha adorati.
INSANITY ALERT
E qui mi tocca riammettere la mia ignoranza, ma questi qua proprio non li conoscevo. Appena saliti sul palco grande mi accorgo che li avevo visti gironzolare in giro per il festival, l’aspetto era proprio quello di quattro thrasher usciti direttamente dagli anni ’80: si dice che l’abito non fa il monaco, ma in questo caso lo fa eccome. Gli Insanity Alert fanno thrash metal, niente contaminazioni né giri di parole, il sound è quello. A mia difesa dirò che in questo genere sono fermo al ‘96, mi piace ma non mi sono mai spinto oltre questa data. Tutto combacia, capigliatura, logo, grafiche alle loro spalle e addirittura arnesi, scusatemi il termine, sopra le casse del service pronti a fare non so che cosa. Ho sperato non fossero fuochi d’artificio. Questi quattro ragazzi provenienti da Innsbruck sono attivi dal 2012 e iniziano il loro show davanti a non molti increduli spettatori, credo che la maggior parte dei partecipanti non li conoscesse e che in realtà fosse poco propensa a vedersi il concerto, magari approfittando di questo tempo per mangiarsi qualcosa in santa pace e senza fretta, possibilmente seduti. Non voglio dire che questo gruppo sia sconosciuto, anzi, ma magari lo è per il pubblico del Disintegrate. Il frontman trash (no, non ho sbagliato a scrivere, poi capirete perché) Kevin Stout ribalta la situazione, esordisce vestito con una posticcia camicia di forza salutandoci in un italiano non proprio perfetto ma più che capibile inframezzandolo con qualche parola in inglese, una simpatia un po’ volgare ma andando avanti con lo show travolgente. La musica parte, lo show inizia l’incitazione al pogo viene prodigata tramite cartelli che compaiono dal nulla ma che vengono pescati dal nostro cantante in punti imprecisati del palco. Tra una canzone e l’altra vengono raccontati aneddoti sul fatto di aver perso il lavoro in una ditta di pulizie per colpa – a quanto mi è sembrato di capire – della sua passione onanista e altre cose di questo genere, che devo dire aizzano gli spettatori alla risata e alla partecipazione al concerto. Fantocci attaccati a bastoni con filo vengono agitati di fronte al palco permettendo a noi di calciarli e picchiarli, a quanto ho capito se lo meritano. Kevin parla molto, la mia scarsa conoscenza dell’inglese mi fa capire che gli argomenti toccati vertono quasi sempre su masturbazione, alcool e droga. Belle cose, per fortuna parla anche un po’ di italiano. La gente aumenta e gradisce lo show, pure io lo gradisco e con temperature più permissive mi permetto di partecipare ai balli pure io. E finalmente anche quei cosi sopra le casse si attivano sputando festoni vari, per fortuna non erano fuochi d’artificio. Di musica non ne ho parlato molto ma come ho detto fanno thrash metal e lo fanno bene, bravi precisi, non conosco le canzoni ma di stecche proprio non ne sento. Gran finale con una cover degli Iron Maiden con un testo cambiato per l’occasione ‘’Run to the Pit, Mosh for your life’’ e ci siamo capiti, con cartelli annessi. Applausi totali.
COUGH
Le tenebre stanno calando a Giavera del Montello e la gente si accalca nell’altro stage, il quartetto (ufficialmente sono quattro ma qui di fronte a noi sono in cinque, a quanto pare un po’ defilato sul palco c’è anche un tastierista) di Richmond, Virginia, si appresta a deliziarci con il suo lentissimo dommeggiante sludge psichedelico. Prima di iniziare a descrivere la loro performance sappiate che avremo di che parlare anche del dopo concerto di alcuni di loro, ma ora veniamo alla musica: la prima nota, la prima botta di batteria e già si vibra, capisco subito che dal vivo questi americani hanno un suono mostruoso, molto meglio che su disco, e non sto parlando solo della loro ultima fatica Still They Pray. Si viene investiti letteralmente da questo melmoso muro sonoro che sembra battere direttamente sul petto e colpisce duro, le strilla disumane che si scambiano bassista e chitarrista sono viscerali, poche chiacchiere, visi coperti dai capelli e leggeri ondeggiamenti sono quello che ci appare davanti, e ogni tanto quando capita qualche synth e simil-organo entrano in mezzo aumentando in crescendo il pathos. Sembra che la gente non aspettasse altro, tant’è che non c’è nessuno spazio vuoto nelle prime file, gli altri amici con cui sono venuto sono presi benissimo e ora capisco il perché. Pensavo di annoiarmi e invece ogni lento susseguirsi di note unito ad un batterista che non si risparmia nelle dinamiche è un vero disperato vagito demoniaco, la notte sembra più oscura. Mi guardo in giro e vedo teste muoversi su e giù lentamente ma ordinatamente tra il pubblico, e in effetti i Cough sono proprio un gruppo da ascoltare viaggiando con la mente nei meandri di una psichedelia pesante senza agitarsi troppo. O forse stanno tutti mantenendo le energie per i Crowbar? A quanto pare…
CROWBAR
Si scende sul palco grande e la ressa è immediata: “since 1991”, i Crowbar. Naturalmente la formazione originale negli anni è cambiata molte volte ad eccezione del solo Kirk Windstein (chitarra/voce). La sua barba e la sua panza sembrano aumentare all’unisono, tre anni fa al Traffic di Roma sembrava più snello. Accanto a lui a quanto pare è tornato Todd Strange, storico e primo bassista della band. Il pubblico qua non si risparmia e io nemmeno, dal vivo questi ragazzoni del sud degli States sono perfetti per godersi un concerto metal come si deve con pogo, stage diving ed headbanging selvaggi. Pure io approfitto anche questa volta per farmi un piccolo volo sul pubblico, ma nessuno sale sul palco e quindi da buon pecorone quale sono evito anche io, ma con rammarico. Qui c’è la storia dello sludge (quando ancora non era così terribilmente lento e molto più groovy) e la gente lo sa eccome, ma è il caso di tornare serio. Dopo un po’ di pezzi mi sposto da davanti al palco in una posizione molto più arretrata per godermi meglio il concerto e per avere una visione più ampia della situazione e subito due cose mi balzano all’occhio: la prima di quanto è piacevole guardare suonare Tom Buckley, direttamente dai mitici Soilent Green, il quale sembra rilassatissimo nell’esecuzione (ma le legnate sono assicurate), la seconda dello stile indiscusso di Todd Strange nel bere lattine di birra che escono non si sa dove da dietro l’amplificatore del basso. A parte la magia nel tirare fuori “conigli dal cilindro”, se le beve una dopo l’altra portandosele alla bocca come facciamo tutti noi comuni mortali, alzandole poi in alto per accogliere a bocca aperta la dolce ambrosia, come un giocoliere, senza farne cadere una sola goccia, quasi a braccio teso. Immagino che ogni volta che faccia questo giochetto se ne scoli una. Che artista, che bassista! Queste sono le cose belle dei live e i Crowbar ne stanno facendo uno degno di questo nome. Come da programma alle 22 si fermano, il pubblico li chiama a gran voce ma senza troppo convenevoli non si ripresenta nessuno. Peccato, ma non mi posso lamentare, “Like Broken Glass” me l’hanno fatta (sì, proprio per me!).
UOCHI TOKI
Si confluisce di nuovo nella zona superiore dell’area fest, non sapendo bene cosa aspettarsi. So che il progetto era iniziato su cordinate hip-hop ma poi si era trasformato in qualcosa di più avanguardista, fatto sta che sul palco dei Uochi Toki troviamo tutto lo spazio liberato, con solo due tavoli nella parte destra, tutto per far focalizzare lo spettatore sul grande schermo dove vengono proiettate immagini. Definirlo live sarebbe limitativo, i fotogrammi iniziano a scorrere, diapositive per l’esattezza e il narratore inizia a parlare, e mentre parla disegna, disegni che si sommano alle diapositive proiettate. A poco a poco ci ritroviamo tutti seduti come bambini ad ascoltare silenziosi le storie e le avventure che ci scorrono davanti agli occhi, racconti di un uomo chiamato “Baratro”, di macchine, dei e demoni.
COLLE DER FOMENTO
Di punk e metal ne macino e ne ho macinato tanto da quando ero ragazzino, ma a fine anni novanta e inizi duemila mi sono avvicinato all’hip hop italiano con artisti come Frankie Hi-Nrg, Cor Veleno e per l’appunto i Colle. Non mi aspettavo dai partecipanti tanta presenza verso questo trio e invece mi sono dovuto ricredere, ed è sempre bello vedere che la musica unisce indipendente dal genere. Masito, Dj Baro salgono sul palco e Danno saluta tutti i ‘’massicci’’ presenti ed io torno subito ad almeno dieci anni fa, sarà almeno da tutto questo lasso di tempo che non sento più questo termine, un po’ perché ho smesso di frequentare questo ambiente da un bel pezzo, ma credo che nel rap odierno questo vezzeggiativo non si usi più. I pezzi si susseguono e i brani come “Ghetto Chic”, “Piombo e Fango”, “Sergio Leone”, “Quello che ti do”, “Prova Microfoni”, “Solo Amore” e “Benzina sul Fuoco” agitano i presenti che cantano i pezzi insieme ai Colle. Io mi tengo in disparte, lontano dal palco in una posizione un po’ sopraelevata rispetto a chi è davanti allo stage, ma sorrido di cotanta bellezza. Si aggiunge alla scaletta un pezzo di cui – scusatemi – non ho capito il titolo, in cui è campionato un riff preso da “Never Enough” dal gruppo hardcore punk veneziano Slander, una collaborazione di cui non sapevo niente (ennesima figura da ignorante, ma sono qui per divertirmi eh). La gente è felice, io sono felice siamo tutti felici ma il Festival per quanto concerne la musica per stasera chiude i battenti.
Sabato bomba. Per i concerti se ne riparla domani, ma la notte è ancora giovane si chiacchiera e si sbevazza allegramente. Ora posso dire a fine serata che c’è stata maggiore adesione rispetto a ieri, cosa più che positiva. Vicino al bar noto Kevin Stout degli Insanity Alert che beve moscow mule come se non ci fosse un domani, ne ha tre bicchieri pieni davanti al tavolo e ne attinge da uno poi da un altro e così via chiacchierando allegramente. Pure io per combattere il caldo pomeridiano non ho scherzato nel bere e inizio a sentire la musica che smette di possedermi passando questo compito all’alcool. Poco male. Con altri amici mi avvicino agli stand degli artisti per andare a curiosare sul merch ufficiale e subito ci fermiamo a quello dei Cough dove i miei compari di camper comprano le magliette di questi distributori di fango, quindi perché non fermarci a fare due ciance con il loro chitarrista Brandon Marcey e con JD, il fantasmagorico tastierista outsider!? Una chiacchiera tira l’altra che finiamo a tarda notte tutti al cimitero, (detta così suona molto male, ma l’accampamento è proprio lì, che ci vogliamo fare). Con due quinti dei Cough più altri amici, almeno una dozzina di persone in tutto, iniziamo un piccolo party post concerti, allestendo una mega spaghettata da due chili con sugo di pomodoro, alici e peperoncino – ecco di cosa parlavo prima nei riguardi degli statunitensi. Schiavizziamo i musicisti d’oltreoceano che ci allietano con due chitarre, portate da noi da casa, ridiamo e beviamo allegramente, mentre qualche eroe, tra cui io, cucina per questa compagnia. A pasta pronta ci si sistema nel migliore dei modi un po’ dentro e un po’ fuori dal camper, Brandon e JD sono ancora dentro e mangiano spaghetti come se non mangiassero da una settimana. L’uso della forchetta non è molto congeniale per loro gli serve solo per tirarseli in bocca e succhiarseli come pazzi. Malauguratamente al chitarrista solista scappa di dire che sono i migliori noodles mai mangiati in vita sua. Uno degli eroici cuochi, molto sbronzo e affaticato, giustamente si è sentito mancare di rispetto – e sottolineo il giustamente – e gli fa notare che il termine non è esatto: “No noodles, Italian spaghetti!” e cerca di insegnargli come usare la forchetta a suon di: “Turn! *bestemmia* Turn!”. La scena è dura ma meritata, oltre che divertentissima, e l’atmosfera è più che rilassata, forse anche troppo. Dopo due piatti carichi a testa i nostri americani sembrano sazi, anche perché mancava poco che mangiassimo pure le stoviglie. Da qui in poi il crescendo delle risate e dello schiamazzo mi insinua pensieri sul fatto che stiamo seriamente disturbando il sonno dei morti e che usciranno dalle loro tombe a straziare i nostri corpi, ma così non succede. Brandon con fare nostalgico ci parla del fatto che l’Italia gli ricorda sua madre venuta a mancare e di quando abitava in una fattoria fuori Richmond. Non conosco le campagne della Virginia e devo dire che Giavera del Montello magari può evocare paesaggi bucolici, ma così ha un po’ spezzato l’allegra atmosfera goliardica venutasi a creare a ridosso del camposanto. Ok, si parla di artisti che suonano doom, musica pesante notoriamente non allegra, quindi ci può stare. Ora non voglio dilungarmi su tutto il resto della nottata ma ad un tratto come di consueto inizia a farsi giorno e noi “pacifici” abitanti del camper iniziamo a romperci un po’ le scatole, è anche ora di dormire. Cacciamo tutti e ci corichiamo, ché domani è un altro giorno di Disintegrate Your Ignorance Fest.