Quando il nostro buon Cris mi ha proposto la recensione di questo disco mi sono da subito domandato il perché mi fosse arrivato con un invito così diretto, motivo che in realtà non mi ci è voluto molto ad intuire una volta iniziato l’ascolto. Devo dire che non conoscevo la band tanto quanto non conoscevo in maniera approfondita le precedenti incarnazioni musicali dei singoli componenti, difatti gli Ex Everything si presentano come una sorta di super band formata da membri dei Kowloon Walled City, Early Graves, Mercy Ties, Blowupnihilist e Less Art, che unendo le forze hanno dato alla luce questo Slow Change Will Pull Us Apart uscito per Neurot Recordings, album le cui tematiche reazionarie trovano fondamenta nella speranza verso la costruzione di un mondo migliore, un pensiero tanto bello quanto utopico, che rimarrà terribilmente vuoto ed inutile se non seguito da azioni tangibili, mirate e forti per raggiungerlo. Ma andiamo per ordine.
Cominciamo dal dire che questa band utilizza delle soluzioni e degli stili che personalmente adoro: il basso è roboante, aggressivo e preponderante, senza mai sovrastare ma sempre potentemente trainante mentre le chitarre a single coil rigorosamente low gain risultano dirette, taglienti e pulitissime nella loro pesantezza; il cantato non sovrasta mai il tutto ed anzi è tenuto leggermente dentro al mix generale rendendolo uno strumento integrante ed integrato atto al fine più che al mezzo, infine la tendenza alla destrutturazione dei pezzi che rende assolutamente impossibile ricollegarli alla convenzione del brano classico nella canonica suddivisione di intro/strofa/ritornello. A riguardo di quest’ultimo aspetto, bisogna dire che in certi episodi del disco la mancanza di uno schema musicale è talmente accentuato che quasi fa sembrare che la band non abbia un vero e proprio piano da portare avanti e questa è la leggerezza più grande che si possa commettere nell’approcciarsi a quest’album. In svariati pezzi come nell’apripista “The Reduction of Human Life to an Economic Unit”, la band propone un tappeto di riff che si ripetono a lungo, ciclicamente, eccessivamente, quasi a farci cedere al pensiero di un inutile sperpero di spazio dato da una ben poca ispirata creatività per in realtà stordirci ed incantarci e far poi trapelare una serie di piccolissime variazioni, piccole gemme di note mancate e riff ritorti che fanno dubitare nel chiedersi se veramente quello che abbiamo sentito è solo una mera ripetizione o un’inebriante e coinvolgente progressione. Progressione? Si perché qui si passa da sonorità hc di rimembranza Every Time I Die a diversioni math per poi aprirsi a territori quasi di natura post-metal con melodie tanto sotto trama quanto esplicitamente squisite. Il secondo pezzo “Exiting the Vampire Castle” riprende esattamente dove il primo ha terminato con toni più cupi e aggressivi, una grande prova di ecletticità vocale ed una struttura che mantiene alta la tensione muovendosi sapientemente come la trama di un ottimo film thriller. “Detonation in the Public Sphere” invece è il primo tentativo di dare luce ad un pezzo decisamente più catchy; qui il termine “tentativo” non è usato a caso in quanto la band è incapace di cedere a reali dettami commerciali regalando un pezzo semplicemente mozzafiato dalla durata di appena 01:32 ma che sembra durare un’infinità e non per noia, quanto per il suo magnifico ed incessante tiro. Le atmosfere cambiano ancora nella successiva “Sermon in Praise of Corruption” dove si torna ad essere cadenzati e a tratti avvolti in atmosfere sludge di davvero notevole fattura: questo continuo movimento di stili ed atmosfere sarà caratteristica costante per l’intero album, passando per le successive “Slow Cancellation of the Future” e “Feral City”, pezzo che rappresenta probabilmente uno degli episodi più compatti e potenti del disco. “The Last Globe Slaughter” invece rapisce per le sue articolate trame melodiche intrecciate tra loro in una tensione continua che non sembra mai trovare il suo culmine e che lascia al fine sfiniti quanto estasiati dando seguito alla chiusura lasciata a “Plunder, Cultivate, Fabricate” che si propone come una pura e chiara dichiarazione di intenti. Inutile dire che già dai nomi dei brani, si può ben percepire come i testi e le tematiche che permeano questo lavoro sono di forte protesta e collera verso un mondo sempre più disumanizzato, disgiunto, politicamente avvelenato e pericolosamente sintetico, tutte cose che a giudizio di chi scrive al giorno d’oggi non vengono mai trattate a sufficienza.
E si, l’ennesima sorpresa che questo disco mi ha regalato è l’aver fatto una recensione praticamente track by track, tipologia che generalmente non prediligo ma che in questo caso mi si è posta probabilmente come una scelta inconsciamente necessaria per tentare di valorizzare al meglio ogni sfumatura di questo album a dir poco sorprendente. Se mi viene permesso un consiglio quindi siate coraggiosi ed immergetevi nell’ascolto di questo disco senza pregiudizio alcuno, scopritelo, riascoltatelo e lasciatevi sorprendere e rapire ancora una volta, mai come la prima: garantito, ne varrà davvero la pena.
(Neurot Recordings, 2023)
1. The Reduction of Human Life to an Economic Unit
2. Exiting the Vampire Castle
3. Detonation in the Public Sphere
4. A Sermon in Praise of Corruption
5. Slow Cancellation of the Future
6. Feral City
7. The Last Global Slaughter
8. Plunder, Cultivate, Fabricate