Nell’ultimo lustro, il seminale quartetto californiano degli Infest, complice un’inattesa reunion, sta raccogliendo un successo decisamente inedito, soprattutto per una band con radici profondissime nell’underground: il loro ruolo di ‘cult band’, nell’immaginario collettivo, si sta rinsaldando sempre di più, grazie anche a live sempre frizzanti, ineccepibili, in cui ogni canzone selezionata in scaletta è una hit. Già, perché gli Infest, a differenza di tante altre band ‘dinosaure’ ritornate in auge, non stanno componendo pezzi nuovi, col rischio di devastare il proprio status di credibilità: d’altronde, se andaste a vedere i Carcass dal vivo, preferireste sentirvi una scaletta incentrata su Heartwork e Reek of Putrefaction o un’altra, fondata esclusivamente sull’ultimo album? Pertanto, semplicemente i Nostri stanno raccogliendo tardivi frutti del duro lavoro di un’abbondante decade fa, portando dal vivo un’attitudine divertente e divertita, con un coinvolgimento emotivo e umano che è la quintessenza di quanto dovrebbe essere musicalmente estremo e hardcore.
Nessuno vieta, comunque, al chitarrista Matt Domino e al suo partner-in-law Joe DeNunzio, di poter desiderare di scrivere nuova musica: reclutato alla batteria Bob (del gruppo seminale powerviolence Lack of Interest), ecco, dunque, nel 2017, gli Exit Unit, power-trio scarno e violento negli intenti, composto, non solo metaforicamente, da pezzi da novanta della scena fastcore-powerviolence mondiale.
Veniamo, dunque, subito al nocciolo della questione: sonoramente, musicalmente, attitudinalmente, gli Exit Unit sono esattamente gli Infest del (o meglio dire nel?) 2017. Forse per ragioni etiche e/o deontologiche Domino e DeNunzio hanno preferito lasciare la loro main band cristallizzata nel culto dell’immaginario collettivo e, allora, potrebbe essere questa la ragione della nascita di questo trio: azzardo questa probabile interpretazione dei fatti. In sostanza, suonano esattamente come ci si aspetta dovrebbero suonare: riff spesso fin troppo derivativi da No Man’s Slave – compresa l’idea di un pezzo di chiusura più lungo e dilatato rispetto ai precedenti: sentitevi “Negative Compulsion” –, gli stoppatini grattugiosi tattici di chitarra, i mosh che non ti aspetti, gli stop’n’go’s, la voce più gabibbesca e incazzata che mai, danno al dischetto un piacevole senso retrò che potrà commuovere non pochi vecchietti affezionati al powerviolence anni Novanta.
Chissà? Forse non c’era assolutamente bisogno di un disco del genere: di per sé – e questo è un dato di fatto – il marchio sonoro e attitudinale Infest, oggigiorno, si riconosce a mille miglia e, tutto sommato, ci sta che qualcuno abbia il piacere di ricordarcene il perché e il per come, provando a scrivere ‘nuova musica’.
(Deep Six Records, Draw Blank Records, 2017)
1. Blue Turns Red
2. Hate Everything
3. You don’t Know Me
4. Sound the Trumpets
5. I’ve got a Plan
6. Population Zone
7. Back Demon Back
8. As Statues Fall
9. Negative Compulsion