In oltre dieci anni di carriera (e cinque dischi), i Fen si sono costruiti la meritata fama di uno degli act più importanti del post-black europeo. Sin dal primo album Malediction Fields, infatti, il terzetto inglese ha dimostrato di saper felicemente coniugare le asperità del black metal con le dolcezze del post-rock, creando un ibrido che da alcuni anni a questa parte gode di un certo favore di pubblico e critica. Per questo, ed a maggior ragione dopo l’eccellente Carrion Skies (2014), l’uscita di questo nuovo album era assai attesa.
Winter non è però, purtroppo, all’altezza della discografia dei Fen. Rispetto al citato Carrion Skies, ma in generale al resto della loro produzione, questo nuovo full-length dilata ulteriormente tempi e strutture, dando ampio spazio (forse come mai prima d’ora) a chitarre acustiche, stacchi melodici ed atmosfere suffuse. Winter vede il terzetto britannico quasi abbandonare la forma-canzone, tanto i pezzi sono indistinguibili e segnati, malauguratamente, da una staticità francamente insopportabile, acuita dall’estenuante lunghezza dei pezzi: è vero che il combo inglese non è mai stato amante della sintesi, ma in questo nuovo album nessun pezzo scende sotto i dieci minuti di durata, e l’intero disco sfonda quota settantacinque. Tale gigantismo non è però giustificato dalla qualità della proposta, che sebbene sempre ancorata alle formule citate, ha virato decisamente sul versante post e persino sullo shoegaze: di per sé nulla di male, peccato però che i Fen si perdano dietro alla ripetizione ossessiva di melodie che vorrebbero essere oniriche, ma più semplicemente si limitano a conciliare il sonno. L’intero disco è costellato di interminabili intermezzi semi-acustici che lasciano indifferenti, quando non smorzano canzoni che lasciavano intravedere del potenziale (come l’opener “Pathway”). A ciò, va sottolineato, hanno contribuito anche le scelte in fase di produzione: la chitarra è spesso talmente inconsistente da sembrare “liquida”, e la batteria ha suoni così morbidi (specie la cassa) che persino i blast sono quasi impercettibili. In tutto questo, ha poco senso parlare dei singoli pezzi: l’unico che si sarebbe potuto salvare è “Death”, se fosse durato la metà. Insomma, a nostro avviso di questo album si salva ben poco.
Concludiamo con una riflessione/provocazione: c’è un’intera “scena” che sembra aver bisogno di fare un bagno di umiltà. Nessuno vieta di fare canzoni di dieci o venti minuti, o dischi che durano come una partita di calcio: ma servono i contenuti, serve avere qualcosa da dire, e non limitarsi ad arpeggiare sulla chitarra ripetendo le stesse note fino allo sfinimento (dell’ascoltatore). Perché non è «evocativo» o «epico», ma solo noioso.
(Code666 Records, 2017)
1. I (Pathway)
2. II (Penance)
3. III (Fear)
4. IV (Interment)
5. V (Death)
6. VI (Sight)