La cosa che più mi incuriosisce dello stoner rock è che dalla sua nascita geografica, l’assolata California, sia poi riuscito ad attecchire anche in terre dove le componenti classiche del genere, tipo la polvere, il deserto, gli acidi, la dottrina lisergica, sono quasi assenti. Per dire, in Svezia si è sviluppata una scena stoner di tutto rispetto, diventando una sorta di California 2.0. È qui che nascono i Greenleaf a cavallo tra il 1999 e il 2000, quando membri dei Dozer, assieme al loro fonico di fiducia, misero in piedi una formazione che nel giro di una manciata di anni ha assorbito completamente la loro verve creativa, a tal punto da mandare in stand by la band madre per una quindicina di anni (i Dozer sono tornati con Drifting In The Endless Void nel 2023). Quello che abbiamo tra le mani è una ristampa del primissimo extended play, omonimo, insieme all’album di debutto, Revolution Rock; per l’occasione è stato aggiunto quel deluxe che ha nulla a che spartire con dei panini da fast food. Fatta questa premessa, vado subito a dire che dopo un quarto di secolo queste canzoni suonano ancora attualissime, dotate di una freschezza a lunga conservazione che ha quasi dell’incredibile.
Se l’EP d’esordio mostrava una band ancora legata alla tradizione psichedelica dello stoner, con quelle fughe strumentali al limite dell’improvvisazione e un cantato grezzo, quasi sgraziato (ad opera del primo vocalist della band, Peder Bergstrand dei Lowrider) ecco che il primo album ha consegnato alla storia una band già in bolla, con idee chiarissime e un sound che, con tutte le eccezioni del caso, può definirsi assolutamente personale e identitario. Solitamente quando lo stoner ha visto tessere collaborazioni e nascita di super band, subito il sospetto – alle volte diventato triste realtà – che potesse trattarsi del solito canovaccio Kyuss / Black Sabbath (con un po’ di blues, oppure di psichedelia, in rari casi pure del progressive anni Settanta) ha frenato gli entusiasmi di molti, persino dei fan più sfegatati del deserto e della polvere. Fortuna vuole che i Greenleaf non siano mai caduti nel tranello – spesso autoimposto – e come detto, Revolution Rock stupisce ora come stupì venticinque anni or sono (questa cosa che gli anni passano così velocemente è tremendamente fastidiosa, non trovate?). La band di Tommi Holappa non si cura della forma e punta alla sostanza, inserendo nella tracklist un buon numero di brani strumentali che riescono a legare con le tracce cantate, andando a creare un humus filologico, magmatico, denso e pregno di coerenza, tiro, groove. La produzione era già buona all’epoca, ora con le moderne tecnologie ecco che i suoni diventano più caldi. La batteria è lo strumento che ne beneficia maggiormente: i suoni dei tom e dei timpani sono belli tondi, avvolgenti, con un suono denso e prolungato. La voce di Fredrik Nordin (Dozer) è un omaggio al tabagismo, all’uso smodato di alcol, con quelle corde vocali che graffiano su ogni strofa. Resta forte il sospetto che il Nostro possa aver passato molte notti col culo scoperto e le finestre aperte e si sa, in Svezia la raucedine è sempre in voga.
A conti fatti una buona ristampa, un bel tuffo nel passato di una band che in questi anni ha macinato km in tour e fatto colare magma bollente dalle casse degli stereo di mezzo mondo, un ottimo modo per (ri)scoprire della gran bella musica.
(Blues Funeral Recordings, 2025)
1. Vat 69
2. Devil Woman
3. Status Hallucinogenic, Phase II
4. You Got Me High
5. Red Tab
6. The Shipbuilder
7. Electric Ryder
8. Hexagram
9. Monostereowhatever
10. Get Your Love Outta Here
11. Sold My Lady (Out the Back of An Oldsmobile)
12. Kvinna Du Ger Mig Ingen Kärlek
13. Smell the Green
14. Land of Lincoln
15. Status Hallucinogenic