Ore 18.00 mi siedo al volante della mia auto, passo a prendere un mio amico e ci muoviamo verso Milano. Destinazione Circolo Magnolia per il concerto di Hate&Merda e Amenra. Durante le due ore di viaggio per raggiungere Milano, mi coglie una sorta di stato di ansia ed emozione; è passato molto tempo dall’ultimo live “grosso” e le aspettative sono a mille. Arriviamo giusto in tempo, le situazioni milanesi sono piacevolmente svizzere: se l’orario di inizio scritto è 21.00, il concerto non inizia un minuto più tardi.
Si entra a gamba tesa tra gli stretti vicoli della capitale del male, il duo nostrano vende cara la pelle e ci regala una cinquantina di minuti di musica senza compromessi. Tra sfuriate hardcore e passaggi rarefatti a cavallo fra psichedelia e sludge, ci presentano una scaletta con molti dei brani di Ovunque distruggi, in cui spicca senza dubbio “Sotto voce” per l’intensità intima e struggente da far venire la pelle d’oca. Ho sentito in concerto gli Hate&Merda moltissime volte, sin dagli esordi de L’anno dell’odio, e li ho sempre trovati una band valida, con una gran presenza scenica, un’estetica consolidata e funzionale, ma non ero mai andato oltre all’apprezzamento. Con l’ultimo disco reputo che abbiano fatto davvero un gran passo in avanti, riuscendo a creare un prodotto autentico ed intenso; sul versante live si può assistere ad un concerto di una band matura, solida, curata nei suoni ed estremamente convincenti sul versante emotivo. Nel cambio palco breve momento per prendere una fedele birretta, un abbraccio meritatissimo a Naresh e lanciarsi di nuovo sotto il tendone per gli headliner della serata.
In un’atmosfera surreale iniziano le prime note: i colori delle luci di sala non esistono più, tutto è marmoreo, statico e distante. Sul telo dietro la band gli immancabili visual in bianco e nero, mentre sul palco fasci di luce bianca si intrecciano creando una situazione di sospensione con lo spazio e il tempo. Il pubblico è attonito, silenzioso e quasi non fiata tra una canzone e l’altra; raramente qualche timido telefono fa capolino sopra le teste per un timido breve video a futura memoria dell’evento. Siamo tutti letteralmente ipnotizzati in un vortice di disperazione viscerale, condiviso assieme alla band senza soluzione di causa; è una catarsi collettiva di abnegazione, una laica preghiera corale. Dal palco non una parola, solamente musica; un brano dietro l’altro senza mai abbassare la tensione emotiva fortissima, per un’ora e mezza che è letteralmente volata senza accorgersene. La scaletta è incentrata principalmente sull’ultima uscita discografica e su Mass VI, i brani scivolano uno dopo l’altro come l’acqua di un torrente placido e regolare. Le prime note di “A solitary reign” risuonano come un coltello piantato dritto nel cuore; è surreale percepire che quel brano, così intenso che mi ha accompagnato in alcuni dei momenti più neri e difficili, sia ora davanti a me, suonato dal vivo, con una massa di suono che mi mette in vibrazione dalla testa ai piedi. Sono sull’orlo delle lacrime, poi, dopo la parte introduttiva, aprono tutto e non resisto più; il mio cuore trabocca di qualcosa di troppo intenso per poterlo trattenere e mi lascio trasportare alla deriva, felice e incurante di tutto ciò che c’è fuori da quella sala.
Finito il concerto aspetto una mezz’ora prima di rimettermi alla guida, devo cercare di tornare un minimo con i piedi per terra e risintonizzarmi con le inezie del quotidiano. Uscendo, mi fermo al banchetto del merch per accaparrarmi una copia del vinile di Mass VI e ci riavviamo verso casa. Il mattino dopo la sveglia tuona come un’incudine sul cranio e la giornata scorre con grande fatica, ma non importa. Gli occhi segnati mi ricordano cosa ho vissuto la sera prima, e tanto mi basta a sorridere e portare la giornata a casa.