L’anno scorso vi abbiamo accompagnato alla (ri)scoperta dei God Machine; cominciamo quest’anno ripercorrendo la carriera di un’altra band che ha segnato gli anni Novanta, gli Helmet, tornati da poco con il deludente Dead To The World ma capaci di scrivere, fino a vent’anni fa, dei veri e propri capolavori della musica alternativa internazionale.
Articolo a cura di Bozza & Faro
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MALIBU, CA – July 12, 2016 – Helmet, rehearsal
Introduzione – a cura di Faro
Verso la fine degli anni ottanta Page Hamilton, già titolare di due lauree in Jazz, membro degli ensemble di Glenn Branca e chitarrista nei Band Of Susans (noise/alternative/rock) recluta Peter Mengede (chitarra), Henry Bogdan (basso) e John Stanier (batteria) per formare una band di nome Helmet.
La band si mette al lavoro partendo, discograficamente parlando,nel 1990, riuscendo a pubblicare sei album con questa formazione se si esclude un cambiamento in corso alla chitarra: Strap It On (1990, Amphetamine Reptile), Meantime (1992,Interscope Records), Betty (1994,Interscope Records, con Rob Echeverria alla chitarra che da qui in poi sostituisce Mengede), Aftertaste (1997,Interscope Records), una notevole raccolta dal titolo Born Annoying (1995 Amphetamine Reptile: comprende varie b-sides, una cover dei Killing Joke e la traccia che dà il titolo al lavoro, che vale da sola il giro sul treno) e per concludere una lunga raccolta dal titolo Unsung: The Best Of Helmet 1991-1997, con ventuno pezzi, compresi quelli tratte delle colonne sonore alle quali gli Helmet hanno partecipato.
Questi album sono quelli che hanno fatto conoscere al mondo intero la band che, nei primi anni Novanta, mentre tutti erano alle prese con il grunge e poi successivamente con il nu metal (forte debitore nei confronti delle aritmie di Hamilton) se ne stava sui palchi in maglietta della salute bianca e jeans a demolire tutto e a lasciare dietro di sé, oltre ad una infinita miseria musicale in questo ambito, anche una miriade di band pronte a conservare questo gruppo come punto cardine di riferimento.
StrapIt On (1990) – a cura di Faro
L’album è targato 1990, esce per la storica Amphetamine Reptile e dura solo mezz’ora, ma quello che contiene è qualcosa di veramente caotico, mai sentito prima di quei tempi. I riff delle chitarre, in particolare quelli di Page Hamilton, sono lenti, poi veloci e stoppati, mentre la devastante sessione ritmica, quadrata e pesante, dettata da basso e batteria, con un perfetto Henry Bogdan ed un incredibile John Stanier, appare precisa e potente come non mai. Le armi usate dagli Helmet per distruggere qualsiasi forma di melodia sono il minimalismo, l’ossessione e il suono pesante e ferroso, proprio lo stesso che potrebbe fare un cingolato su un marciapiede oppure una betoniera in casa. Pezzi come “Repetition”, “Bad Mood”, “Rude”, “Distracted”, “Fbla” e “Sinatra” sono l’essenza di questa band, schegge musicali nelle quali troviamo le muraglie sonore innalzate e sostenute da Hamilton confrontarsi con dissonanze di scuola Sonic Youth e lancinanti rumori nevrotici di derivazione Big Black. L’album è totalmente compresso e scarno, in più, volutamente, non vanta una produzione eccelsa, in modo da evidenziare il grosso disagio musicale generato da questa band, che, come non mai, qui suona noise rock / alternative metal in maniera totalmente rude e intransigente. Strap It On è un album da avere assolutamente, se poi trovate la versione Giapponese con la bonus track “Impressionable” avete fatto bingo.
Meantime (1992) – a cura di Bozza
Il 1992 vede il quartetto newyorkese partire per i lidi della major Interscope, etichetta del gruppo Atlantic, che darà notorietà alla band facendola diventare la beniamina di riviste specializzate come Kerrang!. Per quanto i puristi vedano in Strap It On la massima espressione del suono Helmet, per molti il capolavoro dei nostri quattro beniamini è senza dubbio Meantime.
Il successo deriva sicuramente dalla apertura del suono e della melodia vocale di Hamilton, che vira verso un songwriting più fruibile, senza però rinunciare ai tecnicismi nel comparto ritmico di Stanier e Bogdan ed ai riff taglienti che vengono arrestati esclusivamente dalle sistematiche stoppate che sono timbro inequivocabile del suono Helmet.
Ad aprire le danze troviamo “In The Meantime” pezzo che dà il titolo all’album e che è l’esempio perfetto di come gli Helmet, dopo aver lavorato sulla decostruzione sonora nell’album precedente, vogliano consolidare una loro personale idea di musica. I riff martellanti, il cantato secco ed urlato di Hamilton, gli assoli rumorosi e le ritmiche matematiche che si trovano nel pezzo hanno fatto scuola e si vanno a riflettere praticamente in tutti i pezzi dell’album.
Questo groove assume diverse sfumature, passando da brani complessi come “Turned Out” alla marcia inarrestabile di “Better”, dal’estetica grunge di “You Borrowed” fino alla più famosa “Ironhead” ed al singolo estratto “Unsung”.
Ad oggi Meantime è considerato uno degli album simbolo degli anni novanta.
Betty (1994) – a cura di Bozza
Dopo Meantime per gli Helmet è il momento di affrontare un piccolo cambio di formazione, uno dei tanti nella loro carriera: Peter Mingede lascia il gruppo e viene sostituito da Rob Echeverria. Betty esce nel 1994 e, a parte la curiosità sopracitata, l’album non porta grandi novità a livello sonoro.I newyorkesi puntano qui a confermare quanto di buono hanno realizzato in Meantime ed il loro meritato successo.
Eccoli quindi ad innalzare poderosi muri sonori, come in “Milquetoast” e “Wilma’s Rainbow”, a cavalcare ancora il loro approccio alternativo al metal come nel caso di “I Know”, e a ubriacarci con ritmiche veloci e jazzate come in “Rollo”. Una delle tante soluzioni adottate dagli Helmet è quella degli attacchi e strofe lapidarie che si vanno ad aprire a chorus sempre più melodici, come nel caso di “Tic” e “Vaccination”; la voce di Hamilton in ogni caso cerca la melodia più frequentemente che in passato, creando un bell’ossimoro musicale: le chitarre sempre belle distorte vanno così a creare coni ritmi duri un contrasto interessante.
All’interno dei quattordici brani che formano la tracklist di Betty abbiamo anche spazio per qualche pezzo decisamente atipico, come ad esempio “Beautiful Love”, che parte con degli arpeggi jazz, si irrigidisce con un’entrata a gamba tesa del comparto ritmico e sfocia in un jazz noise totalmente strumentale; oppure possiamo citare “The Silver Hawaiian”, che potrebbe essere benissimo un pezzo dei Primus sotto acido con i suoi giri di basso e le ritmiche di Stanier tendenti al funk.Il brano più ambiguo dell’album è “Biscuits for Smutt”: le ritmiche basso / batteria ed il cantato di Hamilton sembrano voler strizzare l’occhio all’hip hop ed in un certo senso anticipare suoni che poi troveremo nel nu metal.
Nonostante qualche bizzarria Betty è da considerare un’opera 100% Helmet Experience, nella quale la band, pur denotando una certa apertura a situazioni meno caotiche, rimane di fatto la macchina da guerra, soprattutto per l’impatto sonoro, di StrapIt On e Meantime.
Aftertaste (1997) – a cura di Bozza
Dopo Betty bisognerà aspettare tre anni prima di tornare ad ascoltare un nuovo studio album degli Helmet. Aftertaste è l’ultimo disco con la formazione originale, ora ridotta ai soli Hamilton-Bogdan-Stanier.
Il trio però sembra funzionare:Aftertaste, per quanto impallidisca a confronto con i lavori precedenti, sa coinvolgere, risultando un lavoro onesto nel quale gli Helmet puliscono ulteriormente il loro suono, smussano qualche spigolo e si trasformano in una alternative band di fine anni Novanta che purtroppo non ha molto da aggiungere alla propria carriera, tranne i loro live shows, che continuano ad essere particolarmente energici.
Tra i brani da ascoltare ancora oggi si possono segnalare “Pure”, ”Like I Care”, “Driving Nowhere” e “Crising King”.
Conclusione – a cura di Faro
Dopo l’album Aftertaste la band si perde per strada.Tutto rimane nelle mani di Page Hamilton che, a distanza di sette anni, rimette in piedi la band con altri musicisti e cerca di riproporre quel suono particolare che li ha visti solitari protagonisti di un genere. Il tentativo si chiama Size Matter(2004) ma, nonostante dietro alle pelli troviamo un nome del calibro di John Tempesta (Exodus / Testament), si percepisce subito che le cose non filano proprio bene; sicuramente siamo molto lontani dai suoni degli album precedenti. Si continua con l’album Monochrome (2006),nel quale Hamilton ricambia ancora tutta la formazione; una scelta non azzeccata perché, anche qui, il risultato è solo un lontanissimo ricordo del suono Helmet. Da qui in poi i veri fans storici, dopo avergli dato varie occasioni di andare avanti,cominciano a prendere le distanze dalle scelte di Hamilton e diventano ostili. Ma è proprio con i successivi Seeing Eye Dog (2010) e Dead To The Word (2016) che i fans non vogliono più sentire parlare degli Helmet, se non quelli della prima formazione che hanno regalato diversi album che hanno fatto la storia.
Di questa band rimangono però i primi album targati anni Novanta,da avere assolutamente,da ascoltare e riascoltare a dei volumi pazzeschi per capire veramente chi erano gli Helmet: macchinari bellici sulle strade pronti a demolire tutto.