Pubblicare un disco il primo giorno dell’anno? Si può fare. Mettere in difficoltà il recensore di turno, alle prese con le dure abbuffate tra Natale e Capodanno, per ascoltare, pensare e scrivere un pezzo prima del primo gennaio? Si può fare. Pubblicare un disco bello, assicurandosi con 364 giorni di anticipo un meritato posto nella top ten di fine anno? Si può fare anche questo. In sintesi: gli Hungry Like Rakovitz posso fare tutto questo. E oltre. La band è in giro da vent’anni, ha pubblicato tre album, due EP e uno split con gli O. Pious è il nuovo album e ci consegna un gruppo che ha raggiunto un tale livello di bravura, tra scrittura ed esecuzione, che i grandi della musica estrema possono farsi un attimo da parte. Non è campanilismo (me ne frego facilmente di bandiere, patriottismo e ruffianate varie) ma una semplice e lucida analisi dei fatti. I Nostri hanno tirato fuori un disco ineccepibile e mi sento fortunato a poterne scrivere in anteprima. In questi anni gli Hungry Like Rakovitz hanno preso tutto lo scibile dell’estremismo sonoro – partendo dal grindcore “moderno” hanno poi aggiunto letali dosi di math, noise, black, death, sludge – andando a creare un sound unico, forgiando una propria cifra stilistica, arrivando persino a divenire punti di riferimento per le nuove leve del genere. Un bel colpo, senza dubbio! Ma Pious rappresenta un pietra angolare in primis per la band di Bergamo. C’è un prima – dischi buoni e micidiali – un adesso – il disco in questione – e un futuro: tutto quello che il nuovo album rappresenta; tecnica, dedizione, passione, consapevolezza, arte, violenza, un songwriting maturo, lucido, coraggioso. Il disco è stato registrato, mixato e masterizzato dalla band stessa e Tim River: una produzione praticamente perfetta; nonostante la bolgia infernale, ogni strumento è facilmente distinguibile (e mai come in queste canzoni, riconoscere e apprezzare ogni momento, rappresenta un valore aggiunto, una manna dal cielo) ma quello che ne beneficia maggiormente è Rubens, un cantante strepitoso. Il suo non è un growl, non è nemmeno uno scream: parliamo di una gola che disegna creature infernali, che ci prende a legnate dal primo all’ultimo minuto dell’album.
“We Don’t Write Love Songs” (che titolo sublime) ha il compito di presentarci il nuovo lavoro in studio. Abbiamo le ombre lunghe dei Pantera – che verranno fuori anche in altre tracce –, del deathcore nei picchi emotivi, una spruzzata di math e un profumo penetrante alla Converge. Il basso di Cristiano è ottimo: il suo clangore riempie i vuoti creati ad arte dalla sei corde di Enrico. Fin da subito le vocals sono al vetriolo e sciolgono tutto. Un grandissimo modo per introdurci nel mondo malato targato HLR. Il grindcore tout court anima il minuto scarso di “Polishing Turds”, un assalto all’arma bianca che non lascia scampo, come farà il drumming di Tiziano lungo tutte e dieci le canzoni. Il quartetto si dimostra abile anche nei momenti meno tirati, polleggiandosi tra midtempo e atmosfere sulfureee: “Despair Overgrows” è ugualmente schizofrenica ma poi diventa docile – insomma, si fa per dire – srotolandosi come un serpente velenoso; “Permanent Damnation” se possibile è ancora più infettiva. Partenza con un groove incredibile, la tensione tenuta alta con ritmi cadenzati e questa continua sensazione di girare in tondo come un animale selvatico attorno alla sua preda, oramai spacciata. Se citiamo la fauna predatoria, il nome dei Pantera deve saltar fuori eccome: “Coroner Of Dreams” è un rispettoso omaggio alla band dei fratelli Abbott, aggiungendoci una sfuriata improvvisa di deathcore dinamico ed intenso mentre “Those Possessed By Light” prende Anselmo e soci, li rende dei perfetti cosplayer della nuova ondata hardcore americano, et voilà, un brano folle e granitico. Il brano migliore – ove migliore significa: in perfetto equilibrio tra tutte le componenti del sound dei Nostri – è il primo singolo, “A Lot Of Fun”. Una canzone articolata ma al contempo completamente priva di connessioni tra le varie “arie”. Un incipit quasi KoRniano, una serie di riff classicamente rock, una verve prog che non ti aspetti minimamente e paradossalmente easy listening, al netto di un macello pazzesco. Ed è questo il sangue fresco che anima ogni muscolo della band. Brani che nascono e muoiono in maniere diametralmente opposte, concettualmente utopici, stilisticamente instabili, dalle architetture impossibili, Escher che presta le sue prospettive, Raymond Queneau e la sua lezione in 99 versioni diverse, Alessandro Bergonzoni e Aldo Nove a legiferare, mentre un quinto cavaliere dell’Apocalisse si staglia all’orizzonte. Che possa essere il pio del titolo?
Non saprei. Di certo c’è che gli Hungry Like Rakovitz all’alba del primo gennaio 2025 ci consegnano l’album migliore della loro carriera. L’album più pop e progressive. La prima, perché convincere appieno, conquistare qualsiasi audience – e questo disco non può che fare altrimenti, data la sua grandezza – ammiccare risultando onesti e credibili, non è da tutti. La seconda, perché modellare qualcosa di così abbacinante senza incendiare la vista di nessuno, risultando oltremodo convincente, è una virtù che arride solo ai Migliori. E gli Hungry Like Rakovitz oramai siedono nel prestigioso Club dei grandi.
(Shove Records, Flames Don’t Judge Records, Helldog Records, 2025)
1. We Don’t Write Love Songs
2. Polishing Turds
3. The Overwhelming Need To Let You Down
4. Coroner Of Dreams
5. Despair Overgrows
6. A Lot Of Fun
7. We March To The Off Beat Of Our Drums
8. Those Possessed By Light
9. Permanent Damnation
10. The Next Bad Thing