Immaginatevi di invitare a pasquetta i Melt Banana e gli Uzeda nella casa di campagna di buonanima della vostra bisnonna. Fa già caldo, vi siete organizzati tardi e di contattare anche gli Aids Wolf o i Pre non ve ne passa manco per il cazzo perché son snob e magari pure fruttariani. Immaginate un menù misto che accontenti tutti ma che non richieda poi l’effervescente Brioschi a fine pasto e si comincia. La festa fila liscia fino a quando al rosso di Sicilia si mescola il sakè e le band, in un’accozzaglia indistinta, si gettano in un’improvvisazione pomeridiana da far bestemmiare tutto il vicinato. Questo il quadro gastronomico/funambolico che scaturisce dalla musica multiforme degli Icsis, combo francese che suona come un’orchestra di sciamannati ma che è composto in realtà da solo tre membri.
Lungi dall’essere l’incubo generato dalla cattiva digestione, questi matti francofoni propongono in sostanza una musica che tra schizofrenia ‘artsy’ e poliritmi di difficile assimilazione li colloca di diritto nel limbo di quegli artisti catalogati come ‘originali’. Bella mossa per l’Atypeek, la label francese che ha come prerogativa il far conoscere queste musiche ostiche e trasversali anche per e nel circuito indipendente europeo. In realtà i nomi scomodati pocanzi servono solo da coordinate sonore per inquadrare una musica multiforme che abbraccia molti generi e non solo musicali. A occhio pare ci sia un’impronta teatrale (kabuki?) a condire il tutto, più una propensione al surreale che ha del magico, ma che forse traspare solamente andandosi a cercare i video e i live dei tre. Quindi il paragone col combo siciliano e quello giapponese va ridimensionato alla luce dei fatti: è vero che anche gli Icsis hanno una cantante come tutte le altre band citate, ma Jessica Martin Maresco (questo il suo nome) pare la sola in grado – oltre che di adoperare la voce come un’arma da taglio – di spingersi con facilità fino a latitudini ‘bjorkiane’, così come l’interplay di François Mignot e Guilhem Meier (rispettivamente chitarra e batteria) è sì destrutturato e noiseggiante, ma sa spingersi oltre alle geometrie consolidate dei grandissimi (e quadratissimi) Uzeda verso orizzonti prog e canterburiani di seconda maniera. Eppure tutto questo parlare non rende ancora l’idea. Pierre Vide Eau è un caleidoscopio di forme che va ascoltato traccia per traccia.
Che ci si trovi di fronte a musica insolita balza all’orecchio appena dopo il primo minuto e mezzo di “Dark Matter”, dove la cantante e il batterista si alternano in un coro sincronizzato al millesimo di secondo e fatto di sillabe singhiozzanti. I ragazzi sanno suonare, anzitutto, ma sanno anche arrangiare i pezzi in modo non convenzionale. Se la seconda traccia “Birth” fila via senza lasciare particolari segni – se non un vago retrogusto pop che ricorda un misto tra Breeders e Bellini – di certo non lo fa “He”, il pezzo che più preferisco dell’album, coi suoi tempi sospesi e l’atmosfera plumbea che si trascina appresso: su una serie di mini-droni lanciati da un synth in sordina si articola un’armonia di voce e chitarra fino ad esplodere e riassorbirsi nell’arco di poche battute. Le follie incominciano veramente con “Hu”, brano nel quale la voce assume ruolo di strumento scimmiesco a mo’ di contrappunto per le sincopi di chitarra e batteria. Sulla stessa linea seguono “Bao” e “She”, brani dove l’utilizzo della lingua cinese si fa predominante e le storture ritmiche sempre più insistenti, fino a rendersi difficili da seguire. Un’apparente stato di normalità sembra tornare con l’arpeggio iniziale di “Lòng” che si sviluppa in una pseudo-ballad dai toni più distesi benché sempre sull’orlo della dissonanza sino al finale aperto e armonico, e infine chiude “Death”, vera marcia funebre dove è la chitarra a far da padrona su un tappeto di pelli quasi accarezzate e una voce ben più impostata.
Dulcis in fundo: cosa dire delle doti tecniche e compositive dei tre? Basta dire ‘eccelse? Difficile capire dal disco se questo sia il punto di espressione massimo del trio. Per certi versi sarebbero accostabili a degli Henry Cow o Art Bears in versione 2.0, ma anche qui forse sarei riduttivo. Gli Icsis son così, molto nutrienti ma un po’ indigesti. Al primo assaggio spiazzano, ingolfano parecchio e rimangono sullo stomaco, ma riascoltati con calma saziano e rivelano un retrogusto tutt’altro che banale e, diciamolo, un sapore nuovo.
(Atypeek Music, Dur Et Doux, 2016)
01. Dark Matter
02. Birth
03. He (Grue)
04. Hù (Tigre)
05. Bào (Léopard)
06. She (Serpent)
07. Lòng (Dragon)
08. Death
7.0