Tilburg è una città olandese storicamente piuttosto recente, legata principalmente al fiorire dell’industria del dopoguerra, e relativamente lontana dalla costa e dai centri più importanti del paese. Sorprende dunque che non solo uno dei festival più noti ed eclettici d’Europa come il Roadburn sia ospitato in questo luogo, ma che la città dia spazio anche ad altre manifestazioni, meno conosciute ma in costante sviluppo, che si propongono di mettere in mostra le migliori realtà del panorama musicale underground.
L’Incubate festival è uno di questi. Il nome non è scelto a caso, poiché lo scopo del festival è quello di dare spazio e di creare un punto di ritrovo attorno ai migliori artisti all’avanguardia, la cui arte si sta progressivamente espandendo verso una veloce maturità (da qui l’idea “dell’incubare”). La manifestazione raccoglie artisti di diverse discipline artistiche, dalla performance art ai fumetti, ma la musica ha una posizione di spicco; durante la kermesse si spazia dal free jazz fino al black metal, passando per una massiccia offerta di musica sperimentale.
Vi proponiamo il resoconto di una due giorni piuttosto interessante, passata ad ascoltare proposte variegate non solo nel genere ma anche nel concept della loro realizzazione, dagli outfit di scena agli strumenti suonati.
Foto a cura dell’Incubate.
Sabato 10 Dicembre
OHHMS
La mia avventura comincia al Little Devil, piccolo bar non molto spostato dal centro, contraddistinto da un’atmosfera in stile americano, nella quale da un momento all’altro ti aspetti di vedere una banda di motociclisti chiedere da bere al bancone. Appena entrata vengo spedita direttamente nel retrobottega, dove i britannici OHHMS stanno per finire di fare il soundcheck. Il palco è piuttosto stretto per i nostri cinque, tant’è che è ben chiaro a noi spettatori che lo spettacolo sarà piuttosto statico, pena la possibilità di vedersi cadere fuori dallo stage un pedale o qualche asta del microfono. Le nostre speculazioni vanno in frantumi entrando nel vivo nel concerto, quando i nostri ragazzotti del Kent cominciano a suonare il loro ruvido sludge con venature psychedelic hard rock. Gli Ohhms saltano, si arrampicano sulla batteria, scendono dal palco e, in generale, seguono la loro musica con precisione emozionale. Il cantante Paul Waller, scalzo, sembra vivere nel suo mondo, specialmente durante i momenti strumentali, durante i quali sembra fronteggiare la sua stessa immagine allo specchio, agitandosi come se stesse discutendo con la stessa. Con un’ottima esecuzione di “The Anchor”, posta in chiusura, la band porta a casa un buon concerto, che mi permette di entrare nel mood della manifestazione.
OATHBREAKER
Forti della loro nuova release e al momento in tour con James Kelly e il suo progetto solista WIFE, gli Oathbreaker si presentano sul palco dell’Extase come gruppo di punta del sabato. Occhi puntati, neanche a dirlo, sulla carismatica cantante Caro Tanghe, che con la sua violenta vocalità e il suo carisma da poetessa maledetta rimane il fulcro principale della band. Niente da dire sull’esecuzione del concerto, ormai rodato durante i precedenti giorni di tour: i suoni sono ben bilanciati sia nelle parti più atmosferiche che durante i trigger in puro stile black metal, dove forse la band perde un po’ di chiarezza generale ma ne guadagna in impatto. Apertura fantastica con l’introduzione di Rheia, cantata superbamente in un’atmosfera pesante e concentrata.
WIFE
Lo stage viene liberato subito dopo gli Oathbreaker per fare posto alle consolle di James Kelly e al suo progetto industrial di ormai non più recente creazione. La setlist che ci presenta con il progetto WIFE è pensata per presentare il nuovo Standard Nature, in uscita il 23 settembre per la Profound Lore Records, stessa etichetta di band come Subrosa e Leviathan, progetti che, sebbene molto diversi nei generi, sono accomunati dall’obiettivo di produrre musica di rottura.
Lo show di Kelly è anch’esso piuttosto statico, eppure con la sua fisicità il musicista riesce a incanalare l’attenzione dei presenti. Con i loro cambi di tempo e di struttura le canzoni del suo solo project non sono poi così immediate nell’ascolto, ma in un’atmosfera fatta di luci ed ombre hanno un grosso impatto a livello scenico.
SUM
Mi concedo l’ultima performance della serata al Paradox, locale che durante la manifestazione ospiterà i progetti più avanguardistici presenti in line up. È il caso degli olandesi Sum, che, dopo aver chiuso con i Psychic Warriors of Gaia, hanno deciso di fondare questo nuovo progetto, creando un sound scarno ed essenziale. Non per niente, più che un dj set, l’atmosfera del locale sembra quella di un happening di poesie. Purtroppo questa occasione di meditazione trasforma il Paradox in una specie di dormitorio: ci sono alcune persone che, stese sul pavimento, dormono per l’intera durata dell’esecuzione.
Domenica 11 Dicembre
3((0)),((0))((0))((0)) M((O))NKIES
La seconda giornata di festival si apre nel primo pomeriggio con i 3000 Monkies, progetto sludge noise belga con all’attivo tre full-length, di cui due prodotti nel 2016. La performance, eseguita nella cornice del V39, si concentra solo ed esclusivamente sulle sonorità; dire che i Nostri siano statici è un eufemismo, considerando anche l’assenza di spazio sul palco (parliamo infatti di tre chitarre, due bassi e batteria). Proposta particolare la loro, con i membri della band vestiti con tuniche sgargianti e un periodico lancio di coriandoli che mostra l’enorme dicotomia fra le sonorità scarne e primitive del gruppo e un immaginario leggero e infantile.
SVEN AGAATH
Avete mai sentito parlare di shoegaton? È un mix tra shoegaze e reggaton e, stando a quello che affermano gli Sven Agaath, è una loro invenzione. Sono l’unica band al di fuori del circuito metal/underground sperimentale che mi concedo durante il festival, più per curiosità che per reale volontà di ascolto. Posso dire che non esco delusa dal Cul de Sac, poiché i ragazzi portano in scena una musica ricercata ed accattivante, che, nella tranquilla e confortevole cornice del locale, rende l’atmosfera rilassata e familiare. Precursori o no di un nuovo genere musicale, il loro rock caldo suonato con chitarra e percussioni ben si adatta a questa pigra domenica pomeriggio.
LOUD MATTER
I Loud Matter rientrano nella lista dei progetti d’avanguardia del Paradox. Fondato dalla New Media Artist Marieke Verbiesen, in occasione dell’Incubate viene accompagnata dal batterista Gerri Jäger e il musicista Monodeer. Il risultato della performance è alquanto interessante: mentre sul palco si sviluppano una serie di composizioni elettroniche a base di 8-bit, sullo schermo alle spalle dei musicisti vengono proiettate in stop motion una serie di azioni eseguite dalla Verbiesen, consistite principalmente manipolazione di frutta e fiori ripetute in un loop infinito.
THAW
Anno importante per i polacchi Thaw, che nel 2016 hanno solcato alcuni dei palchi più importanti d’Europa (uno per tutti il Brutal Assault). Li troviamo allo 013, circondati dal sempiterno ghiaccio secco che li nasconde per la maggior parte della performance. Con il loro black metal distinto da una pesante vena drone i Thaw raccolgono un notevole pubblico, che li ascolta coinvolti. Al confronto degli altri live a cui ho assistito li trovo però piuttosto fiacchi e non a loro agio. Loro però portano a casa uno show d’impatto, in cui predomina la cupezza degli intermezzi drone, che però non staccano la carne dalle ossa come dovrebbero.
MONOLITHS
Veramente breve risulta il concerto dei Monoliths, che, per via di un problema tecnico non riescono a suonare più di venti minuti. Per chi, come me, ha pazienza di aspettare al V39, si prospettano due lunghissimi pezzi sludge ben portati avanti dal chitarrista e mente del gruppo David Tobin, ma che peccano un poco nell’accompagnamento, probabilmente dovuto al nervosismo dei minuti precedenti. I Monoliths sembrano una band interessante, ma, per la serie di sfortunati eventi (tra cui non solo il problema al basso ma anche l’assenza del volume dei microfoni), non si mostrano al massimo della loro forma e cadono velocemente nell’oblio all’interno dell’Incubate.
YEAR OF NO LIGHT
Torniamo allo 013 per assistere al concerto degli Year of No Light, band francese dedita a uno sludge piuttosto atmosferico, che suona con la doppia batteria in maniera tale da sostenere un quasi continuo muro del suono. Come avvenuto e come avverrà su questo palco, che si potrebbe definire il main stage del festival sia per via delle dimensioni che per affluenza di pubblico, la band riceve una risposta grandiosa. Gli Year of No Light rompono le regole del genere e mescolano diversi elementi stilistici, che rendono la loro musica una continua ricerca di nuove sonorità sempre più orientate al post rock onirico. Posso dire però che tutto quello che si può sentire su album non viene reso nella stessa maniera sul palco, contesto in cui i brani talvolta risultano piuttosto privi di passione.
BORIS
Sembra che i Boris siano la band che l’Incubate stava aspettando. I prolifici giapponesi propongono un set che spazia fra lo sludge e lo psichedelic rock, privilegiando quest’ultimo. Per questa ragione posso dire di non averli apprezzati particolarmente in questa occasione, sebbene i musicisti siano di altissimo livello e la coesione fra loro venga fuori chiaramente nell’esecuzione dei pezzi. Né ho apprezzato il frontman Takeshi Ohtani, che durante un brano e l’altro ha cercato di intrattenere il pubblico ma, vuoi per il traballante inglese o per la quantità d’alcool in corpo, non è risultato poi molto efficace, e sicuramente poco comprensibile.
WREKMEISTER HARMONIES
Perduta l’aspettativa nei confronti dei Boris, mi dirigo per l’ultimo concerto della serata all’Extase, dove i Wrekmeister Harmonies si esibiscono in una formazione che comprende la violinista Esther Shaw (ormai presenza permanente in sessione live) e una pedal steel, di cui purtroppo non riesco ad isolare la melodia, che si perde nel marasma degli altri strumenti. Il locale è strapieno ed è evidente che in molti aspettavano questa esibizione: non veniamo delusi da J.R. Robinson e soci, che si esibiscono dal vivo suonando completamente il loro ultimo full-length, Light Falls, uscito a settembre.
Il risultato dell’esibizione è esplosivo: più che un concerto sembra il risveglio dei sensi. Light Falls non è solo un album, è un viaggio introspettivo all’interno della nostra mente; l’esecuzione dei brani sembra una sorta di meditazione guidata, nella quale la voce di Robinson sembra ripetere un mantra infinito. La raffinatezza dei brani, che si alternano quasi naturalmente e che vengono solo raramente interrotti da qualche frase del frontman, scivolano fra atmosfere orientali e mistiche, non disdegnando intermezzi ruvidi e densi.
Il pubblico gradisce l’esibizione del combo americano, che viene salutato con un lungo applauso. Non posso fare a meno di pensare che la band è la degna chiusura di un degno festival, evento interessante e ben organizzato di cui credo sicuramente sentirò parlare ancora.