Gli Inter Arma sono uno di quei gruppi che o si odia o si ama, senza mezze misure.
Personalmente, da quando nel 2013 li ho scoperti con Sky Burial, non ho potuto fare altro che amarli: una proposta così d’impatto, tribale e diretta, espressione pura dei semplici ragazzi del midwest americano che l’avevano architettata, fu per me una rivelazione. Da parte di uno cresciuto con i Pink Floyd, poi, non poteva non essere apprezzata l’affinità con un sound pesantemente influenzato dai Settanta, una caratteristica che mostra come la band non si vergogni di fare metal con certi riferimenti.
Dopo un particolare EP composto da un’unica traccia della mastodontica durata di quarantacinque minuti, quel The Cavern datato 2015, gli Inter Arma rientrano in studio per incidere il loro terzo album di inediti, Paradise Gallows, ancora una volta edito da Relapse Records. Se sul precedente già dalla copertina si percepiva una certa crudezza e violenza nella proposta, in questo caso l’artwork riporta alla mente i grandi paesaggisti europei di inizio ‘800, su tutti il Caspar David Friedrich de “Il Mare di Ghiaccio”.
L’album parte con “Nomini”, una intro a base di chitarra elettrica senza distorsione che innalza una piacevole danza sonora. Il messaggio è chiaro: gli Inter Arma continuano a fare metal, ma continuano comunque ad amare il rock anni Settanta. Con questo presupposto si cade letteralmente nella gutturale “An Ancher in the Emptiness”; qui si nota come ormai il sound dei Nostri poggi su basi solide, principalmente una batteria piena e riecheggiante, chitarre taglienti e ossessive, voce lontana e urlata. Con queste idee in testa, ma con molta umiltà e passione, i ragazzi di Richmond hanno creato il loro personale culto primitivo; è proprio pensando alla musica in forma spirituale che acquista maggior significato un pezzo come “Primordial Wound”, in cui gli Inter Arma si liberano totalmente dal giogo del black metal per affondare le mani nello sludge più viscerale, andando a creare questa preghiera dedicata a dei antichi e senza nome. A metà del disco, esattamente in “Potomac”, viene ripreso lo stesso assolo di chitarra della prima traccia per regalarci un altro viaggio nel tempo, indietro di cinquant’anni, accompagnati ora anche da un pianoforte, una lenta ascesa che ci accompagna fino alla title-track, la traccia più lunga dell’album, nella quale significativamente s’incontrano tutti gli elementi in precedenza magari solo accenati. Con questo album gli Inter Arma confermano ancora una volta il loro status di band di culto all’interno di un genere che solo loro sanno padroneggiare veramente, qualcosa di profondo e diretto che magistralmente riescono a estrarre da loro stessi e ad incidere su disco. Inutile spendere ulteriori parole sulle influenze e le sonorità diverse rimescolate da questa band rara: pogliatevi di questi preconcetti e vedrete che anche voi riuscirete ad amare incondizionatamente questi cinque ragazzi venuti dall’Ovest.
(Relapse Records, 2016)
1. Nomini
2. An Ancher in the Emptiness
3. Trasfiguration
4. Primordial Wound
5. The Summer Drones
6. Potomac
7. The Paradise Gallows
8. Violent Constellations
9. Where the Earth meets the Sun