Forse l’avrete notato: ci siamo innamorati di Johnny Mox. Dopo aver amato il suo ultimo disco, Obstinate Sermons, e avere apprezzato la sua potenza on stage, abbiamo posto qualche domanda a Gianluca Taraborelli, che con grande disponibilità ha soddisfatto tutte le nostre curiosità. Il risultato è un’intervista bella lunga, dal quale emerge molto bene la personalità, lo spirito critico e la grande semplicità di questo artista nostrano che vi invitiamo a scoprire.
Cominciamo dai fatti recenti: nel 2014 coi Gazebo Penguins hai pubblicato un split e ora ti fanno da backing band in un tour giunto quasi alla sua conclusione. Com’è nata questa collaborazione e com’è stato suonare con loro così a lungo?
I Penguins li ho conosciuti qualche anno fa. Mi avevano invitato a suonare da loro con il mio vecchio gruppo. Siamo rimasti sempre in contatto, mi hanno chiamato a suonare alla data di presentazione del loro ultimo disco. Poi mentre ero in studio da Sollo all’Igloo Audio Factory a registrare il mio disco nuovo, scherzando è uscita l’idea di fare uno split assieme. Adesso siamo addirittura in tour assieme: una combinazione perfetta di tempi e condivisione di progetti. E’ gente radicale e semplice allo stesso tempo. Dal vivo le date sono state finora incredibili. Buchi per terra.
Su disco sei a tutti gli effetti una one man band, ma nonostante la tua musica, dato che ha come base di partenza una loopstation, sia pensata per una persona sola, sembra che tu ci stia prendendo gusto a suonare in gruppo. Da cosa è nata questa esigenza? E arrivato a questo punto, “tornerai indietro”?
Desideravo arrivare a questo sound da molto tempo. Prima di Johnny Mox ho sempre suonato in band, con ruoli diversi (cantante e batterista per lo più). Suonare con altre persone, stare dentro al suono, è qualcosa con cui è difficile competere. In questa fase, che è contraddistinta da un’attività live intensa, mi interessa avere volumi sopra il 10, stare in giro con gente che ammiro, fare gruppo, spaccarci le ossa ogni sera. Dalla primavera tornerò da solo, sto lavorando ad un nuovo set e per l’estate stiamo perfezionando un progetto molto particolare, “Johnny Mox & the Holy Drums alliance”, un trio con due batterie, sax e synth. Io suonerò una delle due batterie.
Hai un background musicale (e culturale) evidentemente ampio ed eterogeneo. Ti va di riassumere in poche parole a quanti dei nostri lettori non ti conoscono da quali premesse parte il progetto Johnny Mox?
Ok. Vado veloce. Progetto nasce a New York..bla bla..suonare da solo..bla bla..loopstation..bla bla..cori ripetizione gospel harlem..bla bla..visto la luce..bla bla..reverendo mox..bla bla..urgenza punk..bla bla..spirituals black music..bla bla..la voce è il mio strumento principale..cori beatbox..il mio gruppo preferito sono i Beastie Boys..bla bla..venite a vedervi un concerto.
Passiamo a Obstinate Sermons. Quando si prova a definire la tua musica ci si trova sempre a tirar fuori tante definizioni diverse, ma quel che più mi ha colpito è il forte gusto rock che risalta fin dal primo ascolto. Cos’è cambiato nel tuo approccio, oltre all’evidente fatto che suoni tutti gli strumenti?
Questo album in particolare doveva suonare più aggressivo. Il disco precedente (We=Trouble) è nato da una serie di limitazioni che avevo deciso di impormi per far partire il mio progetto solista. Loopstation, cori, ripetizione ossessiva e semplicità. In Obstinate Sermons invece i pezzi sono stati scritti senza alcun vincolo, sapevo che avrei avuto una band sul palco a supportare il tour e sapevo fin dal primo giorno che avrei scritto un disco più aggressivo, con batteria, basso e molte chitarre. Pur servendomi di alcune macchine non sono mai stato un musicista elettronico, mi piace il volume alto ed era il momento di alzare il volume.
Torno sul tema “rock” perché ultimamente mi sta molto a cuore. La sperimentazione e la ricerca di nuove modalità d’espressione è sempre cosa buona e giusta, sia chiaro, e il tuo We=Trouble è stato un esempio positivo in questo senso. Tuttavia, nonostante io non sia così “vecchio”, trovo sempre più influente nel mio giudizio di un disco “l’orecchiabilità” o comunque il legame con certi linguaggi più o meno universalmente riconosciuti. Sbaglio di molto se penso che tu con questo disco abbia più o meno consapevolmente voluto mettere, per così dire, la sperimentazione al servizio della canzone?
Sono convinto che sperimentare e scrivere canzoni, intendo proprio canzoni pop, siano le cose più complicate e allo stesso tempo più eccitanti per un musicista. Rispetto tantissimo chi improvvisa, e allo stesso modo rispetto le band che hanno un sound immediatamente riconoscibile, ma il vero brivido per me arriva quando mi riesce di sperimentare per davvero (non fare musica sperimentale che era sperimentale 40 anni fa). Allo stesso modo ho un’altissima considerazione di chi riesce a costruire un motivetto pop, col ponte o il ritornello, senza essere banale.
Il mio metodo di lavoro è sempre lo stesso. Parti semplicissime, scarnificate praticamente all’osso, ma posizionate in un contesto ritmico con trame molto più fitte e destrutturate. E’ un discorso a cui tengo molto. Prendi per esempio il riff sui cui poggia “The Winners”: mi ha richiesto settimane di tagli, cancellature, tentativi: eppure è semplicissimo, su una nota sola, è una roba imbarazzante per quanto è banale. E’ per questo motivo che mi dà una soddisfazione immensa. Ennio Morricone mi perdonerà se lo tiro in ballo in questa storia. Qualche mese fa in occasione del ritorno al cinema della versione restaurata de “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” in un’intervista a Valerio Mattioli ha rivelato che nel ’66 mentre scriveva quella colonna sonora malata e psichedelica ispirandosi a John Cage, al numero uno in classifica in Italia c’era un suo brano scritto per Gianni Morandi. E’ questo il corto-circuito che a me piace. Per questo vorrei ispirarmi a lui. Non riproponendo in chiave rivista le cose che faceva un milione di anni fa (e di cui oggi si vergogna), ma cercando di avere lo stesso atteggiamento e la stessa cura da artigiano.
Sul tuo utilizzo della voce si è detto più o meno di tutto. Ho letto tanti riferimenti, fatti da te o da altri, al concetto di ripetizione nelle liturgie come nei cori degli alpini. Io però ho sempre pensato anche ai cori delle tragedie greche e in generale ai metri della poesia classica. E questo mi ha fatto riflettere sulla profondità della tua musica, su quanto probabilmente risulti, oggi più che mai, così fruibile perché tocca istinti da sempre presenti nell’animo umano.
Non ci avevo mai pensato. I cori in quel caso venivano utilizzati per accentuare la drammaticità della rappresentazione no? Per cui ci sta tutta.
La parola è un altro elemento essenziale della tua musica. Come nascono i “sermoni” di Johnny Mox? Mi piacerebbe sapere se, come a me sembrerebbe, è la parola il tuo punto di partenza e in che modo decidi di renderla in musica.
E’ come aprire il rubinetto. Vengono a ruota libera, senza alcuna limitazione metrica. Non ci sono rime, non c’è una vera melodia. Cerco di scrivere direttamente in inglese, ma ovviamente google traduttore è il migliore amico che ti tira fuori dai pasticci. In italiano uno stile del genere suonerebbe ridicolo. Ci sono credo affinità con il tono dei predicarori religiosi americani, lo spoken word, il rap, i venditori al mercato, Jon Spencer, Arrington de Dioniso, Zack de la Rocha, Screaming Jay Hawkins. Per i cori è vero, spesso il suono ritmico della parola va a creare una sorta di riff ossessivo che evolve fino a trasfigurarsi e diventare un elemento della canzone.
Ancora sul significato delle parole: perché Johnny Mox è universalmente riconosciuto come un “predicatore”?
Non so chi ha cominciato a chiamarmi reverendo. E’ un modo di porsi ed un immaginario che mi ha sempre stimolato moltissimo. Ovviamente predico bene ma razzolo male.
In We=Trouble dicevi che “now that we have the means we don’t have the goals”. E veniva da dire: un predicatore non dovrebbe infondere speranza? Ora invece “dichiari guerra alla rassegnazione”. Cos’è cambiato in te e attorno a te? E, volendo, di cosa parla nel complesso Obstinate Sermons?
Obstinate Sermons è un disco che parla di fede e di ostinazione. Non è una questione di dottrine religiose, è una specie di tributo alla grandissima dignità e al coraggio di tante persone normali, insegnanti, medici, lavoratori, madri, immigrati che hanno deciso di non piegarsi alla meschinità e alla rassegnazione che sta distruggendo il nostro paese. Sono persone che hanno sulle loro spalle il Pil e il destino del Paese, ma che nonostante tutto conservano ambizione, fanno una fatica pazzesca ma si rifiutano di cedere alla mediocrità.
Mi ha sempre incuriosito il fatto che tu venga da Trento. Io sono nato “dall’altra parte” delle Dolomiti (Belluno), non ho praticamente mai vissuto lì ma tutte le volte che ci torno quelle montagne hanno per me un fascino indescrivibile, mi danno un senso di “pace” ma allo stesso tempo mi provocano una sorta di timore reverenziale. Perciò ti chiedo: quanto hanno influito sulla tua musica i luoghi in cui sei vissuto?
Purtroppo per me non è così. Sono sempre stato attirato da suoni e altre schifezze che provenivano dagli States. Avrei venduto mia madre per un paio di Jordan con la linguettona. Mi piacevano gli Sgorbions, il rap, i film d’azione di Italia Uno, la black music, lo skateboard, le fotografie di Glen Friedman, la musica, cafona, rumorosa e veloce. Adesso, dopo aver girato molto, amo il posto dove vivo e sto lavorando ad una riscoperta della musica della mia terra proprio attraverso lo studio della coralità.
Grazie mille per la tua disponibilità. Saluta i nostri lettori come preferisci.
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