Di questa band so davvero poco, più per reticenza loro che per mia pigrizia: giocano a fare i misteriosi e queste cose mi esaltano. So che arrivano da Birmingham, che sono un duo (Andy Swan e Damian Bennett, dei quali non conosco le precedenti esperienze e manco so chi suona cosa o chi canta, parla, ecc ecc), che questo è il loro quinto disco e, giusto per coerenza, non conosco le loro precedenti uscite discografiche. Sono stato colpito dalla copertina, dal logo che trovo brutto e respingente, ma soprattutto dal titolo del disco: Many Things Afflict Us Few Things Console Us (molte cose ci affliggono, poche cose ci consolano). In effetti un titolo migliore non potevano trovare. Questo che abbiamo tra le mani è un piccolo gioiello di musica estrema, nella sua accezione più ampia, che getta sconforto e sgomento durante l’ascolto, che lascia inermi, prima, e inerti, dopo. Diciotto tracce, una tracklist lunga ed impegnativa che comunque scorre veloce data la qualità finale del lavoro del duo inglese. La band propone un sound che pesca a piene mani da vari generi: abbiamo il freddo tecnologico dell’industrial, il distacco emotivo del noise, la rabbia primigenia del black metal, la dilatazione spazio temporale del doom, l’alterazione della realtà dell’EBM, ma anche il folk, il jazz, la world music, la musica sacra, trovano spazio in questa enorme cattedrale del male targata Khost. L’ascolto del disco porta leggeri scompensi: si inizia con un senso di oppressione, quasi mancasse il respiro, come se qualcosa di invisibile cominciasse a stringerci il collo. Poi, complice la mancanza di ossigeno, la mente comincia a vedere cose che non esistono. O che forse avevamo dimenticato.
L’incedere marziale, una batteria post atomica unita ad una produzione quasi lo-fi, volutamente grezza, polverosa, in perfetto contrasto con la glacialità di certa strumentazione, non aiuta, non ci desta dal torpore emotivo. Anzi, sottolinea ogni perdita di speranza, un rintocco perpetuo alla nostra fortezza, destinata a crollare miseramente in questa ora abbondante di grandissima musica. Le vocals alternano momenti che rimandano alla gloriosa epoca della new wave, accompagnate spesso da un lussurioso lavoro al basso. Alle volte lo spettro uggioso dei Joy Division gela il sangue piombando come un corvo sulle carcasse spoglie di brani scritti in sottrazione. La teatralità di Ian Curtis è un punto di riferimento per i Khost, unitamente alle sonorità meccaniche del krautrock. Quindi è d’uopo ricordare le parole di Stephen Morris – batterista proprio dei Joy Division – che disse, parlando dei Kraftwerk: “Il matrimonio uomo-macchina quando avviene è qualcosa di fantastico“.
Parlare dei singoli brani sarebbe un lavoro fuorviante, l’album è da gustare nella sua interezza, lasciandosi trasportare dal magmatico flusso di suoni che i Nostri hanno saputo intrecciare tra loro. La title-track, se posso permettermi, è di sicuro il brano migliore: un vaso di Pandora con dentro tutto quello che vi ho appena descritto. Bellissima canzone, disco magistrale, band straordinaria. Spegnete le luci, fate partire il disco, godetevi l’oscurità.
(Cold Spring, 2024)
1. Shard
2. The Fifth Book Of Agrippa
3. Death Threat
4. Face
5. Apotropaic
6. Many Things Afflict Us Few Things Console Us
7. Transfixed
8. Incinerator
9. Hands In Broken Time
10. Death Car
11. Reading Between The Lines
12. L2L6
13. Cheapside
14. Define The Edge Of Someone
15. Overrun
16. TVSB
17. Death Threat (Bereneces Remix)
18. Yellow Light (Adrian Stainburner Remix)