Political and personal, concerned with the mysteries of love and islands literal and self-created, this is a record about dissolution, leaving, reaching an end without ever truly knowing why.
Sono passati tre anni da Old Sunlight, l’ultima pubblicazione dei britannici Latitudes, un disco che fan e cultori non possono aver dimenticato. E la band torna sulla scena con un nuovo full-length, Part Island, dal sound ancora una volta eccellente, riconoscibile ma rinnovato nei particolari e nell’attenzione al dettaglio compositivo. Infatti, al post-metal a tratti avantgrade di Old Sunlight si affiancano adesso inserti puliti con ampi momenti acustici di matrice alternative rock, folk, e shoegaze accompagnati dalla voce di Adam Symonds. Part Island affianca un genere strumentale alla melodia cantata senza mai creare separazione tra gli elementi: la band abbandona i grovigli distorti, quel troppo pieno che rendeva un po’dispersivo l’ascolto d’insieme di Old Sunlight, per lasciare spazio a composizioni più equilibrate e lineari, ma anche più mobili e mutevoli. Ogni brano raggiunge apici pesantissimi e imponenti grazie ad arrangiamenti che ricordano a tratti lo sludge e a tratti il black metal melodico, quella combinazione di potenza e precisione a cui la band ci aveva abituato con i precedenti lavori, ma questa volta i Latitudes dimostrano di saper dissolvere quella furia granitica in riuscitissimi paesaggi acustici. Il tutto si muove a fianco della voce, non a servizio né a guida di questa, ma in un perfetto equilibrio delle parti. Una simbiosi che oscilla tra la calma e il caos per sei tracce dalla durata complessiva di quaranta due minuti.
“Underlie”, che si apre con un intro di chitarra acustica, voce e pianoforte. Segue un bridge di ottantadue secondi: il pianoforte resta sospeso, con in sottofondo un frame che scatta ritmicamente, un noise glaciale di chitarra accumula tensione, poi all’attacco di batteria, basso e chitarre scoppia con la violenza di una tempesta oceanica. “Dovestone” (punta di diamante del disco) è un inferno di distorsioni sovrastato da un cantico sacrale, un contrasto riuscitissimo che travolge l’ascoltatore proiettandolo in un’atmosfera estremamente mobile fatta di rumore, violenza, tristezza, dilatazioni improvvise dominate da una voce quasi angelica, e brusche impennate della dinamica con riff distorti che lasciano il segno. “Part Island”, l’omonima traccia di chiusura, sembra per struttura e intensione una traccia speculare a quella iniziale: un arpeggio di chitarra acustica, la melodia cantata, il pianoforte, un bridge. Ma al posto della violenza con cui il disco inizia e si evolve, qui la tensione non esplode, le sonorità si inaspriscono e il pezzo evolve, si fa cupo e rabbioso, ma è una rabbia soffocata che comunica una sofferta repressione interiore anziché un’esternazione violenta, è un’alternanza di rumore e melodia che non perde mai quella particolare vena narrativa che costituisce l’identità dell’intero disco.
Part Island è un album che ricorda le sonorità del vecchio Agonist (2009) – soprattutto “Antechamber” – ma che si distacca anche da questo lavoro grazie a un sound e un impianto compositivo che recuperano un approccio più classico e meno sperimentale rispetto alle precedenti pubblicazioni. I Latitudes ricercano una formula di songwriting decisamente canonica che si rispecchia nella scelta di inserire la melodia cantata in tutte le tracce, ma declinano i contenuti dei brani con risultati affatto scontati, per quanto sicuramente derivativi. Il contrasto creato della potenza della parte strumentale e dalla dolcezza della voce di Adam Symonds contribuisce alla realizzazione di atmosfere e suggestioni che risultano non solo particolari, ma finalmente uniche e memorabili. Tuttavia, alcuni brani o momenti del disco denunciano forse un’eccessiva ripetitività delle soluzioni impiegate, cosa che in certi frangenti potrebbe appesantire un po’ l’ascolto. Nel complesso però Part Island risulta la migliore e più completa pubblicazione della band britannica: un album maturo e curatissimo nel dettaglio, sicuramente il risultato di un calcolo compositivo che sfrutta eccellentemente sia una particolare e ormai consolidata propensione per l’impatto sonoro e la furia delle distorsioni, sia la presenza e la solidità della sezione ritmica, sia la particolare resa melodica e narrativa che solo il talento di Adam Symonds poteva introdurre nel sound già di per sé notevole dei Latitudes. Consigliatissimo l’ascolto.
(Debemur Morti Productions, 2019)
01. Underlie
02. Moorland Is The Sea
03. Dovestone
04. Fallowness
05. The Great Past
06. Part Island