Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero.
Gli Israeliti entrarono nel mare asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra.
Gli Egiziani li inseguirono con tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri, entrando dietro di loro in mezzo al mare.
Robb Flynn come Mosè, quindi. Perché da un bel po’ di anni quello che succede ad oggi nuova uscita discografica targata Machine Head è proprio questo: si sollevano due muraglie, da una parte i fan che idolatrano sempre e comunque il loro beniamino (considerando la band come quello che in fondo è, ossia un progetto solista di Flynn), dall’altra i detrattori che pare aspettino con la bava alla bocca qualsiasi cosa esca dalla mente di colui che, sempre per loro, è soltanto un megalomane, permaloso, egocentrico, egoista, fanfarone. In mezzo, sul terreno reso asciutto dal miracolo divino, rimane Flynn, che forse forse si sente davvero un messia, i compari che lo seguono nella line-up (che ha subito diverse variazioni in questi 33 anni di storia) e – udite udite – chi, come il sottoscritto, cerca di ascoltare un disco per quello che è, senza farsi influenzare da millemila seghe mentali. Tipo: “Flynn è una puttana che sceglie di volta in volta il trend migliore per vendere la sua musica“. Oppure: “Flynn è un despota, nel gruppo decide lui e, anche quando può avere un chitarrista eccellente (come Wacław Kiełtyka nel recente passato), lo relega a margine del progetto“. Ma anche: “Flynn litiga con tutti, ne dice una, ritratta, si riavvicina facendo il cortigiano, salvo poi tornare alla carica con altre parole d’odio“. Non so, io a queste cose non ho mai dato troppa importanza, sin da quando mi sono avvicinato al mondo metal, e parliamo di 40 anni fa, eh. L’ho sempre trovato un inutile spreco di tempo e risorse. L’artista, al di là di quanti molti affermano, a me ascoltatore, non deve proprio nulla: pagare moneta, vedere cammello, è sempre la formula giusta. Flynn scrive un disco che a me non piace? Amen, spengo lo stereo, mi dedico ad altra musica. Talmente semplice che alle volte anche l’acqua naturale pare il più grande dei miracoli. Ma d’altronde nel villaggio degli scemi c’è chi litiga per quale sia il migliore tra Burn My Eyes e The More Things Change…, dicendo che uno è meglio dell’altro, che col secondo si erano già venduti, blablablabla.
Finito questo mio pippone filosofico, vado a dire la mia sul nuovo disco: UNATØNED è per me un buon album. Rientra nel solco iniziato e tracciato con Catharsis e proseguito con ØF KINGDØM AND CRØWN, quindi per chi non ha apprezzato le recenti uscite suggerisco di passare oltre, sia nell’ascolto, sia nella lettura di questa recensione. Il fatto che Flynn da tot anni si sia stabilizzato su una formula molto melodica, dove il thrash moderno – che lui ha contribuito a creare con alcuni dischi del passato – è confluito nel metalcore, con un abbassamento della durata dei brani, rendendoli quindi più “leggeri”, più fruibili, se vogliamo dirla come la direbbero gli haters, “più ruffiana e puttana”, è da una parte una cosa positiva (ha trovato una sua quadra) e dall’altra una cosa negativa e preoccupante (stasi creativa che perdura da troppo tempo). Non ho idea di cosa passi per la testa per il musicista di Oakland, un tizio che a 58 anni può anche sbattersene di tutto e di tutti (dalla regia mi dicono: “ehi, lo fa da sempre!”), che ha scritto pagine di metal che andrebbero insegnate a scuola – ogni tanto l’oggettività nell’arte va ricordata – e probabilmente non è nemmeno un fattore così preponderante per approcciarsi ad un album dei Machine Head. A me pare che da sempre Flynn sappia scrivere ottimi brani, al di là del genere proposto (The Burning Red è stato un grandissimo disco di nu metal, ancor meglio di chi il nu metal lo faceva da anni) ma è anche normale che la ciambella non esca sempre col buco e difatti anche UNATØNED presenta brani che suscitano delle perplessità. Ora, tolta l’intro e “DUSTMAKER”, che sono minutaggi rubati all’agricoltura, ci sono un paio di canzoni che non mi convincono per nulla: “NØT LØNG FØR THIS WØRLD” è una discreta lagna che vuole vestirsi da semi ballad, con vocalizzi sul sofferto andante – ah questa cosa che l’artista debba sempre soffrire, ridateci i Kiss e la loro pussy attitude, cribbio! – e “BLEEDING ME DRY” suona alla Slipknot in modalità spompata che rimanda agli Stone Sour che a loro volta ricordano ancora gli Slipknot e che Corey Taylor alla fiera dell’est mio padre comprò. Altra pecca dell’album è la produzione che ho trovato fin troppo grezza, mi risulta poco nitida, andando così a impastare le chitarre, sia ritmiche che soliste. La voce di Flynn poi perde svariati colpi nei passaggi più soft, a ‘sto giro le clean vocals non funzionano bene, sarà l’età, sarà la produzione, non so. Rimane il mistero, perché nei momenti più tirati l’ugola al vetriolo è sempre quella, un cane rabbioso che schiuma veleno su ogni strofa.
Il resto dell’album è più che valido e convincente ma, ribadiamolo per il distratto che passa di qui: non sono i Machine Head dei primi due lavori, non sono quelli del disco nu metal, non sono quelli della fase “polpettoni da dieci minuti a brano”; sono semplicemente i Machine Head che, come detto, da Catharsis in poi hanno scelto di stare nel flusso di un metal potente, melodico, meno dispersivo e poco incline al “vediamo chi sputa più lontano”. Ha avuto ragione Robb? La domanda non necessita di alcuna risposta. La risposta è dentro ognuno di noi. Io, per dire, vado a riascoltarmi UNATØNED per l’ennesima volta.
Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri».
Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare.
Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno.
(Nuclear Blast Records, 2025)
1. LANDSCAPE ØF THØRNS
2. ATØMIC REVELATIØNS
3. UNBØUND
4. ØUTSIDER
5. NØT LØNG FØR THIS WØRLD
6. THESE SCARS WØN’T DEFINE US
7. DUSTMAKER
8. BØNESCRAPER
9. ADDICTED TØ PAIN
10. BLEEDING ME DRY
11. SHARDS ØF SHATTERED DREAMS
12. SCØRN