Tornare a Tolmin è come tornare a casa dopo un lungo viaggio, l’aria frizzante che sa di selvaggio, le facce sorridenti che incorniciano il nostro dolce sentiero verso l’entrata riservata a giornalisti, fotografi, membri dello staff e artisti sono contagiose. Ritirare pass e tuffarsi a capofitto nella fauna del Metaldays 2019 è un attimo e dopo pochi minuti stiamo già pascolando in un autentico paradiso, godendo delle novità, degli spazi ottimamente organizzati, constatando l’ottima offerta culinaria e godendoci un festival già nel pieno delle sue attività collaterali. Il tempo di salutare amici, parenti, sorelle, madri e amori, brindare alla nostra salute che è tempo di riposare prima della battaglia, non prima di aver cenato presso i goduriosi stand di Beyond Meat e The Amaze e aver fatto un po’ di shopping presso gli stand di piccole ma fornitissime realtà come Immortal Frost Production, le luci si spengono e solo la notte ci separa dal primo effettivo giorno di festival.
Clicca sulle foto per aprire la gallery completa.
Giorno Uno: We hide in light.
Arriviamo appena in tempo per sbirciare i nostri compatrioti DISTRUZIONE seminare desolazione sul new forces stage, a ridosso di una delle due caratteristiche spiagge del festival, che è ora di presentarci sul main stage al cospetto dei TEN TON SLUG, quartetto irlandese capace di reggere sulle spalle la responsabilità di dare fuoco alle polveri sul main stage e soprattutto di aprire una giornata maestosa. Hanno poche frecce al loro arco ma ben affilate, capaci di colpire duro e fare grandi danni, il loro sludge marcio e maleducato berciato con veemenza, unito ad una presenza scenica esaltante, fa si che si raduni una folla mai vista prima per un opener del Metaldays. Lo spettacolo prosegue in maniera incredibilmente coinvolgente fino al punto di fermarci con loro nel post concerto per complimentarci e brindare. Nonostante il loro status di culto, i LUCIFER calcano il palco in una luce quasi irreale, avvolti dal sole di un pomeriggio di fine luglio. Esclusa questa nota puramente estetica, la band va dritta al sodo, tanto groove, suoni belli potenti ma adeguati e carisma da vendere. La formidabile Johanna splende più di ogni cosa mettendo in ombra il resto della band (praticamente nuova di zecca, dato lo stravolgimento di lineup del 2018).
Rapido cambio di palco, una Haka propiziatoria e la piccola magia ha luogo: ALIEN WEAPONRY, una storia bellissima iniziata proprio l’anno scorso ma su un secondo palco comunque talmente gremito di persone da aver fatto da trampolino di lancio alla band di ragazzi neozelandesi. Una band di ragazzi giovanissimi che mette anima e corpo in quello che fa, mischiando il tribalismo tipico della loro cultura (primi Seps? vi dice niente?) ad un thrash non freschissimo ma comunque godibile se messo in relazione alla loro giovane età e al notevole margine di miglioramento, la performance è comunque una sassata in bocca e nonostante il caldo torrido l’area è giustamente riempita. Un ottimo presagio, e una grande risposta a chi si interroga riguardo lo stato di salute del genere.
Ennesimo rapido cambio di palco eseguito con maestria da parte della crew del Metaldays e siamo subito fra le fauci dei WHILE SHE SLEEPS, pronti a dar fondo alle loro energie nonostante la mancanza del carismatico Loz, sostituito da un poderoso e navigato Scott Kennedy dei Bleed From Within. Pronti, via, i WSS partono a bomba e per tutta la durata del set non rallentano mai, in un vortice (letterale) di energia e furia, uno di quei classici concerti metalcore che ti lasciano soddisfatto anche se non sei un fan sfegatato del genere, la band è priva di uno dei suoi pezzi forti e la scaletta manca anche di qualche hit, grande prova e grande coerenza.
La mezzora di soundcheck che ci separa dai NEUROSIS sembra interminabile, ma una volta iniziato il concerto è estasi pura. Ogni sfumatura di questa band titanica è li, vivida e palpabile, in una performance densa, vigorosa, prorompente ma a tratti dalla delicatezza commovente, è impossibile essere del tutto oggettivi ma lo show messo in piedi dal combo di Oakland è impeccabile a detta di ogni presente, esperienza trascendentale, ennesima conferma dello status di band culto. Cornice di luci, sound spettacolare e scaletta molto valida aiutano a rendere il tutto ancora più indimenticabile. Forse l’unico aspetto migliorabile è la scelta di slot nella giornata, leggermente fastidioso vedere le prime file costellate dagli smartphone dei fans in attesa della band headliner della serata. Parliamo degli ARCH ENEMY: la band sale sul palco come se strisciasse il badge per accedere al proprio ufficio, grande impostazione e copione fastidiosamente scandito, un headliner grande e grosso ma che lascia la sensazione di distacco dal pubblico, coreografia e luci di scena maestose ma ben poco pathos, ad ogni modo lo spettacolo generale è all’altezza delle dodicimila persone radunate davanti il main stage del Metaldays.
La giornata volge al termine, ma ci sentiamo di segnalare comunque diversi exploit avvenuti sul secondo palco con ROLO TOMASSI, OCTOBER TIDE e NECROPHOBIC a tenere alto il livello.
Giorno Due: My Friend Hope Is A Prison
La torrida seconda giornata di Metaldays inizia a prendere una dimensione quantomeno umana con l’avvento degli INFECTED RAIN, il quintetto moldavo ci mette un sacco di grinta e nonostante il caldo veramente mortale il pubblico si lascia trasportare. Il grande carisma della radiosa Lena fa molto e la giornata finalmente decolla a suon di metalcore, non troppo originale ma sorretto da una buona band molto affiatata.
Neanche il tempo di rendercene conto che i coloratissimi e rétro THE VINTAGE CARAVAN salgono sul palco e con la loro settantiana grinta ci colpiscono dritti al cuore, regalandoci un concerto così godibile da rimanerci addosso come uno dei migliori del Metaldays, sicuramente una grande sorpresa, performance emersa nella line-up metal a forza di artigliate leopardate e pantaloni a zampa d’elefante. L’app del Metaldays ci segnala l’imminente inizio performance di una band segnata come interessante, ed eccoci alla prima delusione del festival: gli ALKALOID sulla carta molto interessanti, nella pratica un enorme spreco di eclatante bravura, che finisce per dare l’idea di una band che ha provato troppo poco per esprimere il virtuosismo di cui è capace. Non me ne vogliano gli appassionati ma la band è diventata un po’ noiosa e ripetitiva dopo poco tempo, e la poca convinzione non ha sicuramente giovato allo spettacolo.
Avete presente quelle band così ignoranti e coatte da diventare perfino simpatiche dopo aver superato lo sconforto iniziale? Ecco, nel nostro personale libro, a questa definizione troveremo una bella foto dei RISE OF THE NORTHSTAR, che con il loro hardcore poco raffinato perfino per essere hardcore, hanno travolto tutto e tutti trasformando l’area in una sorta di bolgia. Fra maschere, presenza scenica e musica al limite del demenziale, ci hanno colpito… in positivo, diciamo.
Orecchie da troll/elfo, tematiche boschive, fan conciati volutamente come se fossero appena rotolati nel fango, sensazione di esser tornati indietro di una quindicina d’anni alla grande deriva folk/pagan/viking che aveva colpito il metal. Eccoci, parlavamo proprio dei FINNTROLL, che fortunatamente lasciamo godere ai loro sostenitori in favore dei TRIBULATION. Gli svedesi guadagnano il palco con incredibile ritualità, fra incensi, vesti svolazzanti, funebri versi e infine il concerto inizia regalando un gran impatto sia visivo che sonoro, l’atmosfera e la longevità dei brani portano avanti il set in maniera molto omogenea.
Torniamo sul main stage intitolato al compianto Lemmy ed è tempo di concederci una delle band che più ci ha colpiti durante questo intero festival: gli ARCHITECTS. La band britannica ha perso la dimensione da band da club affollato ed è proiettata verso le stelle. Il lutto è ancora visibilmente presente ma non fa altro che spingere e sostenere una band che fatto tesoro di quanto condiviso con il compianto Tom Searle, brilla intensamente. Musicalmente parlando è un attacco sonoro veramente potente, un sound e un’esecuzione da brivido, sormontata da un Sam Carter in forma strabiliante che si lancia in una performance al cardiopalma, sentita e sincera. Nonostante qualche classico un po’ meno recente, che ci ha fatto sgolare e commuovere, il materiale più fresco degli Architects ci prende a schiaffi in faccia dall’inizio alla fine, fatta eccezione per il momento dedicato a Tom, con la emotivamente devastante “Gone With The Wind”. Asciugate le lacrime, non c’è rimasto che dare la buonanotte ai nostri cari, stringendoli più forte possibile.
Giorno Tre: What is going on?
La terza infernale giornata di Metaldays inizia con i nostri amici SUPREME CARNAGE intenti ad arare il primo palco, dispensando death metal, simpatia e anche qualche birra. Festeggiamenti a parte, le cose si fanno molto serie con i DEAD LABEL. La band irlandese dimostra una gran capacità di tenere il palco, aggredire il pubblico con un bel mix di metalcore più o meno molesto e una gran attitudine, sicuramente una delle band emergenti più grintose viste in questa edizione. Il tempo di dirigerci verso il secondo stage è gli HOUR OF PENANCE sono pronti a seminare morte e distruzione, con un set preciso all’inverosimile e una gran botta, oltre la gigantesca presenza scenica. La band italiana porta avanti un set mostruoso, pesante, incessante e senza una nota fuori posto, e si che di note ne fanno.
Next stop: Norvegia; quei pazzi furiosi dei KVELERTAK sono una delle più grandi sorprese live della mia personale carriera e in genere di gran parte delle persone che li vede per la prima volta. Che energia, che passione, che tiro ragazzi! Il set parte subito a bomba, con una formazione incredibilmente affiatata nonostante il cambio di frontman, di cui parleremo meglio a brevissimo, un impatto sonoro granitico con tutta la violenza del metal ma la passione ruggente del rock più ispirato. Menzione d’onore per Ivar Nioklaisen, un autentico animale da palco, un fulmine a ciel sereno capace di incendiare totalmente il main stage di questo Metaldays 2019 e di rendere praticamente superato qualsiasi concetto di “frontman” avessimo fino quel momento. Stellari, con ben poco altro da aggiungere.
In parallelo, sfortunatamente per loro, gli STONED JESUS sono stati artefici di una grande performance, penalizzata purtroppo dalla scarsa affluenza, ad ogni modo hanno espresso il deserto a modo loro, rendendo orgogliosi i numerosi fan. Tempo di ROTTING CHRIST e tempo di una delle performance più apprezzate dell’intera edizione 2019, la band greca è stata aggiunta al bill in un secondo momento a sostituire Phil Anselmo & The Illegals, e ha oggettivamente pettinato tutti con una performance abrasiva, senza sosta e enormemente carica di phatos. Il black metal ellenico fa breccia, conquista il cuore di tutti e si prende la corona di headliner della giornata direttamente dalle grinfie dei DREAM THEATER, non esattamente un esempio di grinta o divertimento a meno di esser dei fan sfegatati, sinceramente ci ha colpito assai di più la performance dei SATURNUS sul secondo palco, capaci di far piombare la buona metà del festival nelle tenebre più oscure, con il loro doom estremamente denso, sentito e cupo.
Giorno Quattro: Stabbing the Drama Inside
Arriviamo sul sito che i MOROST sono già sul palco e riusciamo a sentire uno stralcio di ottimo concerto, sufficiente a mettere in ombra gli HYDRA, band subito prima i BLOODSHOT DAWN, che sebbene qualche problema tecnico-audio, mettono in scena un bel set, truculento e tecnicamente ben assortito, eseguito con grande professionalità e un buon modo di lanciare il torrido pomeriggio sloveno verso una serata di ottimi concerti. Mi sposto sul secondo palco ed è subito la sagra del disagio, uomini vestiti da banana, da sterco, da messicani dal sombrero costruito con lattine di birre esauste… è decisamente il momento dei CLITEATER, che con grande esperienza calano un intro degno del miglior asso di briscola e poi proseguono il set con tutto il meglio del peggio, nel migliore stile festa grind da risate gratuite, ottimo concerto malato quanto basta.
Esattamente nove anni dopo la prima volta, nello stesso luogo, sullo stesso stage, ci accingiamo a vedere i DECAPITATED. Vogg e compagni mettono a ferro e fuoco l’area stage quasi totalmente riempita a suon di furioso death metal. I polacchi sciorinano materiale dal loro recente Anticult dimostrando quanto siano delle macchine da guerra, seminando qualche classico da cardiopalma qui e li nel set e chiudendo con “Winds Of Creation”, canzone che rade al suolo tutto quel che abbiamo avuto il piacere di ascoltare fin quel momento, devastante.
Guardiamo l’ora e sono le SOILWORK o’ clock, vincendo il pregiudizio personale ci accingiamo a seguire attentamente tutto il concerto degli svedesi, pur non essendo particolarmente in sintonia con il loro ultimo periodo artistico, lo show si presenta discretamente bene, certo è che pietre miliari come “Nerve” e “Stabbing the Drama” sono autenticamente macellate da una voce incerta e una sezione ritmica non esattamente all’altezza. Scaletta quasi totalmente spoglia di brani da dischi incredibili come The Panic Broadcast a parte, uno show discreto che non rende sicuramente giustizia alla band incredibile che i Soilwork sono stati nel loro corso di vita.
E sempre per rimanere in tema di svedesate, ecco salire sul trono Peter Tägtgren, gran visir delle svedesate, sapientemente seminate in questi quasi trent’anni di HYPOCRISY. Uno spettacolo che fra scaletta, luci, performance e carisma, fa quasi scomparire i problemi di voce del buon Peter, che inossidabile si carica sulle spalle comunque l’intera baracca. Per noi i veri headliner della giornata rimangono loro, che insieme alle tre band precedenti ci hanno sfiancato e levato le energie. Il tempo di raccontarvi del buon Gaahl e dei suoi GAAHLS WYRD e il sipario cala anche per noi. Che dire, un frontman gigantesco per una band che sa il fatto suo ma porta a termine un compitino, ad ogni modo il concerto viene reso veramente indelebile dalla performance del titano norvegese, che come da leggenda, sfodera un carisma incredibile e delle doti canore veramente superiori alla norma, felicissimo di aver colmato questa lacuna, depenniamo Gaahl (persona squisita al di fuori del palco) dalla lista di personaggi mitologici da vedere dal vivo.
Giorno Cinque: Under the moon the wolves gather
Il nostro quinto ed ultimo giorno di festival è amaro, triste, cupo e freddo, con tanto di pioggia imminente, come se il tempo atmosferico percepisse il nostro umore. Salutare tutti i colleghi, organizzatori, addetti alla sicurezza, artisti e amici non è mai semplice, ma a scaldarci il cuore vengono in nostro soccorso i DOPELORD con i loro riff titanici, suoni grezzi come la malta e un tiro epocale che ci proietta in un vortice di suoni, colori e odori particolarissimi… da li a poco la questione sarà purtroppo molto diversa a causa della pioggia, che ci causerà qualche problema nel godere dei concerti, ma niente paura, le perle stanno per arrivare, insieme alle avventure più assurde di cui io abbia ricordo.
Dopo i spumeggianti BULLET è la volta di TARJA, che sebbene sia una donna bellissima e simpaticissima, non incontra propriamente il nostro gusto, con tutto l’impegno del mondo non riusciamo a seguire il suo spettacolo ma rimaniamo comunque felicissimi per i suoi numerosi fans che ne godono la splendida forma. Per noi è tempo di disperarci, il sole può bellamente morire, per noi solo THE RUINS OF BEVERAST e malessere. Uno show pesante come un macigno, impossibile da fotografare, solo da sentire sulla pelle come una tortura angelica. Meravigliosi e intensi, uno di quei concerti che non volevo perdermi per nessuna ragione al mondo, e che fortunatamente non ho mancato. Se da una parte abbiamo la dirompente simpatia dei KORPIKLAANI che ci fanno tornare sedicenni con i loro inni alla bella vita, e dall’altra parte ci sia in atto il culto riservato agli IMPALED NAZARENE, i rispettivi spettacoli si interrompono malamente per colpa di un blackout che ha coinvolto l’intera valle di Tolmin a causa del maltempo. Non è bastato nemmeno questo a ferire l’umore dei dodicimila metallari festanti, tant’è che risolto l’inconveniente la serata è proseguita come da programma, con l’ultimo headliner principale e l’ultimo show del festival, rispettivamente DIMMU BORGIR e TIAMAT.
I Dimmu Borgir con mio enorme stupore hanno puntato su una scaletta per chi era loro fan un decennio fa, con una serie di hit degne dei nostri migliori/peggiori diciassette anni o giù di li. Complice l’ondata di ricordi lo spettacolo sotto la pioggia ci prende un sacco, fiamme, luci, trucco e parrucco e un’esecuzione da manuale ci corrompono e ci incollano davanti all’Ian Fraser “Lemmy” Kilmister stage fino a spettacolo terminato, ci rimane da affrontare l’ultima quest di questo meraviglioso viaggio: i Tiamat.
Il tour anniversario di Wildhoney prometteva bene, un capolavoro simile andrebbe celebrato a dovere, ma purtroppo, lato strumentale a parte, la prestazione di Johan Edlund non ci entusiasma, e con enorme rammarico, l’intero concerto non ci lascia molto addosso, completamente zuppi e stanchi, decidiamo di concederci un brindisi e di salutare il nostro amato paradiso fatto di fiumi, monti, birra e musica del demonio.
Indipendentemente dal futuro nebuloso che si prospetta per il Metaldays nella sua sede attuale, il lavoro degli organizzatori è impeccabile, il clima che si respira vale da solo il prezzo del biglietto, le infrastrutture e l’organizzazione sono impeccabili e l’offerta collaterale lo rende uno dei migliori festival a cui io abbia mai partecipato. La continua ricerca del miglioramento e cura del dettaglio da i suoi frutti ci fa sentire sempre più parte di una grande famiglia. Non rimane che invitarvi a visitarlo e visitare la sua versione invernale, ne vale assolutamente la pena! See you on the road!