Si dice di non giudicare un libro dalla copertina, ma a volte è davvero impossibile non farlo. Per me vale lo stesso discorso per la musica, e infatti la copertina di questo secondo album dei Million Moons mi ha subito incuriosito. Mi sono sentito quasi attratto dalla calma surreale di questo scenario notturno e misterioso, avvolto dalle ombre, con la luna e il suo riflesso sull’acqua come uniche fonti di luce. E così mi sono ricordato di questa band inglese, che avevo conosciuto e apprezzato grazie al loro debutto del 2022, Gap in the Clouds; un bel disco che trattava con grande sensibilità il tema dell’Alzheimer. Eppure, con la quantità di ottimi dischi post-rock pubblicati negli ultimi tempi, i Million Moons erano scivolati un po’ fuori dal mio radar. Con mesi di ritardo dalla sua uscita, dunque, ho ascoltato questo I May Be Some Time, pubblicato il 5 luglio dello scorso anno per la Ripcord Records, e devo dire che mi ha conquistato. Le ragioni del mio entusiasmo sono tante, soprattutto in un anno pieno di grandi pubblicazioni come è stato il 2024. Innanzitutto, il comparto sonoro: la produzione dei sette brani è limpida e ben curata, una vera e propria gioia per le orecchie; gli effetti delle chitarre sono splendidi, capaci di creare profondità e atmosfera, mentre la batteria risulta sempre presente e incisiva, con un impatto notevole e un feel molto moderno. Ma ciò che rende davvero speciale questo lavoro è la sua potenza evocativa: le composizioni certamente rispettano le ‘regole’ del genere, con crescendo emozionanti e transizioni molto fluide tra momenti intimi e altri più grandiosi, ma è il modo in cui l’album riesce a costruire, in soli 35 minuti, un arco narrativo compatto e coerente che ha catturato davvero la mia attenzione, più di molti altri dischi. Solo dopo aver ascoltato l’album ho letto le note stampa, e ho scoperto che il gruppo londinese ha trovato ispirazione nelle gesta eroiche e nel sacrificio dell’esploratore Lawrence Oates. È la stessa storia che aveva ispirato i We Lost The Sea per “A Gallant Gentleman”, dal monumentale Departure Songs. Ho avuto quindi la conferma di trovarmi dinanzi a qualcosa di speciale, ed ho quasi sentito il bisogno di scriverne: devo dire, infatti, che consiglierei questo disco a chiunque apprezzi la bellezza della musica strumentale, non solo agli appassionati di post-rock.
Sin dal primo brano, “Terra Nova”, si percepisce un profondo senso di esplorazione dell’ignoto: i tappeti sonori in crescendo avvolgono il pianoforte con la potenza di una supernova. Metaforicamente, il brano sembra descrivere l’approcciarsi a qualcosa di sconosciuto – che sia un sentimento, una destinazione o un viaggio interiore tra zone d’ombra e sporadici spiragli di luce. Questa stessa sensazione, quella sorta di entusiasmo un po’ spregiudicato degli inizi, viene resa benissimo nella trionfale “Uncharted Waters”. La batteria qui domina, valorizzata dall’ottima produzione, mentre l’energia si manifesta pienamente nei riff alti iniziali, che sollevano il mood, accompagnati dalla potenza più terrena delle chitarre post-metal. Ma è nel bridge che il pezzo si evolve: sembra di osservare un passaggio bellissimo, misterioso e spazioso, arricchito dai suoni ambient che fluttuano nel vuoto del cosmo. Qui, le scintillanti note di piano e chitarra contribuiscono a creare onde eteree di sonorità pacifiche e distese, offrendo un momento di quiete quasi ultraterrena. La vera forza del disco sta nella sua dinamica, e nella capacità di muoversi con naturalezza tra stati d’animo opposti, come in questo brano: questa calma viene improvvisamente spezzata da una chiusura travolgente, con un drumming feroce e massicci riff ritmici, distorti e carichi di tensione. La stessa sensazione che si avrebbe osservando vaste e inesplorate distese notturne, tra meraviglia e senso di smarrimento; e musicalmente, tra aperture melodiche serene e irruente turbolenze sonore. Tra i brani spicca “Voice of the Wild”, con quel bellissimo ritornello iniziale che mi ha ricordato moltissimo gli Alcest; in questa traccia ho ritrovato lo stesso senso di meraviglia e rispetto reverenziale nei confronti della natura della band francese. E proprio come negli album degli Alcest, anche qui l’alternanza tra atmosfere serene e rilassate, arricchite da riff scintillanti e splendidi riverberi, e sezioni più intense e concitate – che sfiorano il progressive metal – è gestita con grande efficacia. A completare il quadro, troviamo timide note di pianoforte, quasi smarrite nell’ambiente circostante, e fraseggi di chitarra elettrica pulita, impreziositi da un riverbero importante che amplifica ulteriormente l’impatto emotivo del brano. È un album in cui la bellezza di certi suoni, oltre a essere un piacere in termini di produzione, contribuisce a far apprezzare composizioni dall’innegabile fascino. “Intruders in a Strange World”, per esempio, è uno dei miei brani preferiti di tutto il lavoro: ho trovato davvero incantevole la magia del delay che accompagna il pulitissimo fraseggio iniziale. Basta un riff leggiadro come questo, arricchito da questo suono avvolgente e da un panorama sonoro quasi fantascientifico, per descrivere mondi interi. La seconda metà del brano mi ha fatto pensare a “Isolated System” dei Muse, da The 2nd Law, soprattutto per la cassa riverberata, per le aperture piene di colore e luce, e per quella velata elettronica dal sapore quasi dubstep. E tutto coesiste con riff distorti e imponenti, scanditi da una batteria frenetica e velocissima che chiude il brano con un’energia irresistibile. Nella title-track, “I May Be Some Time”, gli umori iniziali si tingono di malinconia; la melodia principale, evanescente e nostalgica, si sviluppa attraverso fraseggi puliti che danzano sopra un complesso e avvolgente pattern di batteria. C’è molta dolcezza nelle note di pianoforte che accompagnano i riff di chitarra, e nella parte finale tutto diventa più grandioso e trionfale: l’ariosità delle chitarre evoca un senso di libertà assoluto, quasi catartico. “Endure, Overcome”, invece, sembra descrivere le difficoltà del viaggio, sospeso tra fatica e resilienza. I Million Moons raccontano tutto questo con arpeggi ricchi di delay che trasmettono un senso di disorientamento, mentre la sezione ritmica mantiene ancorato il senso di urgenza. In questa posizione della scaletta, il brano trasmette molta forza: a un certo punto c’è un riff pulito davvero notevole, arricchito da glitch elettronici che lo rendono ancora più coinvolgente. È il momento in cui lo sforzo trova la sua ricompensa e il pericolo si dissolve, lasciando spazio a un senso di meritato trionfo. A chiudere l’album arriva la meravigliosa “Aurora”, la conclusione perfetta per un viaggio tanto intenso. È un brano disteso, emozionante, nonché il più lungo, con i suoi 7 minuti. Ascoltando le trame di queste chitarre, si percepisce un profondo senso di serenità, amplificato dai brividi che regala quella in tremolo: il modo in cui fluttua, incontrollata e maestosa, è davvero da pelle d’oca. Nel dialogo tra la chitarra principale e gli effetti che la circondano si respira una pace immensa; tra l’altro la batteria entra solo a metà brano, aggiungendo quella solennità quasi cinematografica che accompagna fino al gran finale. Sembra davvero la scena conclusiva di un film, dove la tensione misteriosa si dissolve, lasciando spazio alla pura gioia.
C’è qualcosa di magnetico in I May Be Some Time. È musica che non cerca di impressionare con eccessivi tecnicismi, ma che comunque si muove libera, lasciando alle sue dinamiche e ai suoi contrasti il compito di suscitare emozioni diverse con grande autenticità. Non è necessario essere appassionati di post-rock per trovare qualcosa di speciale in questo disco; basta avere il desiderio di lasciarsi trasportare. E chiunque senta il bisogno di un viaggio musicale – reale o interiore o immaginario – per perdersi e ritrovarsi, ne troverà uno di altissimo livello in questo disco.
(Ripcord Records, 2024)
1. Terra Nova
2. Uncharted Waters
3. Voice of the Wild
4. Intruders in a Strange World
5. I May Be Some Time
6. Endure, Overcome
7. Aurora8.0