Un caleidoscopio, una serie di scatole cinesi, un cubo di Rubik. Oggetti che mi vengono in mente ascoltando la musica suonata dai Miotic, trio ravennate di estrazione math rock ma non solo. Sono passati quindici anni dalla pubblicazione di ‘Post Rock e Oltre’, retrospettiva a cura di Stefano Isidoro Bianchi e Eddy Cilia sul primo decennio di vita del non-genere per antonomasia, e se le pagine di quel libro si chiudevano con un grosso punto interrogativo – ovvero cosa sarebbe venuto dopo il post rock – di sicuro molte altre son state scritte senza che il grande pubblico e la stampa specializzata prestasse troppa attenzione, e soprattutto senza dare risposte esaurienti al quesito, perché il post rock e molte delle sue varianti, tra cui quella robusta del math rock, hanno continuato ad ardere con più o meno intensità come la brace sotto alle ceneri di un grosso barbecue: se finisce la salsiccia non per forza finisce anche la festa.
Ma allora, cosa è capitato nel gap degli anni zero? Fare anche solo una breve retrospettiva dei picchi e degli svarioni di un genere-carrozzone dai colori e dalle forme estremamente mutevoli e mai definiti sarebbe un’impresa folle. Chi ha cercato di seguire gli sfuggenti sviluppi del post rock ha presto capito che per scovare piccoli capolavori, ma anche solo per restare aggiornato, doveva ‘limitarsi’ a rovistare in un vastissimo sottobosco. E proprio dal sottobosco arrivano i Miotic, che – tanto per restare in tema – come dei tartufi hanno assorbito i sali minerali del suolo arricchito dalle radici e dalla linfa dei maestosi alberi del passato. Sì, perché di arbusti alti oggi non se ne trovano quasi più, e della flora rimanente solo pochi esemplari spuntano come funghi per poi svanire col passare della stagione, mentre la maggior parte nasce-cresce-muore appunto in ambito underground.
La musica della band è un condensato di quanto meglio sia uscito finora in ambito math strumentale, e uno dei pregi inconfutabili del disco – che si chiama Antinomia – è che ha i suoni appropriati per esaltarne la classe ma soprattutto la potenza che sprigiona. Parliamoci chiaro, i Miotic non hanno inventato nulla di nuovo: il loro suono è debitore di mille altre band, ma la cosa bella del genere suonato dal trio – qualunque cosa esso sia e in qualsiasi modo lo si voglia chiamare – è che può assorbire in sé infiniti stimoli sonori, amalgamarli ad altri preesistenti e infine rinnovarsi continuamente. Ecco allora un frappè di 36 minuti a base di derive sonore e sornione comuni alla neo-scuola strumentale francese, partendo dagli Chevreuil fino ai più recenti Pneu e Papaye, ma senza trascurare progressivismi d’oltreoceano tra Tera Melos, The Para-medics e The Psychic Paramount e parecchi interventi a gamba tesa in ambito heavy tanto cari agli ultimi Zu. Il disco si apre con “Ubique”, un brano che nella sua interezza glissa da un’intro alla Don Caballero ad intermezzi sincopati per poi tornare sui suoi passi, rendendo praticamente indefinibile la catalogazione della materia sonora a seguire. Matrici motoristiche emergono dall’inizio del secondo brano “Teethcake”, dove un incedere scoppiettante simil-Zeus! lascia presto il posto a mini-aperture epiche e arpeggi inquietanti, tapping tarantolati ed esplosioni blastate. Lo spettro dei Don Cab di What Burns… e American Don si ri-materializza in maniera ingombrante negli armonici e nelle intrusioni di batteria della seguente “The Dog And The Hole”, traccia che per fortuna si riprende sul finale con un incedere prima latino, poi progressivamente gonfio di dinamiche in crescendo. Echi psych risuonano invece in “Mausoleo dell’Eterno Distacco”, pezzo che dopo la metà rimanda ai Tool di Aenima per il suono del basso e il pattern ritmico. Le restanti tre tracce, “Antinomia”, “Machinery” e “Philip, The Glass Elephant” riprendono in ordine sparso le strutture intricate e le influenze delle precedenti andando a chiudere il disco in complessità e potenza. Nell’insieme è notevole il lavoro del basso e della batteria, che talvolta – includendo anche i riff in tapping del chitarrista – estendono il concetto di sezione ritmica al totale della band. Qualcuno ha detto che il math rock si basa su una certa fisicità ritmica e che i leader delle band sono quasi sempre i batteristi. Non poteva avere più ragione di così. Pensate a Damon ‘Che’ Fitzgerald dei già citati Don Caballero o a Blake Fleming dei Laddio Bolocko e ditemi se non è vero. Questo è anche il caso dei Miotic: i pilastri marmorei dell’edificio che il gruppo costruisce suonando sembrano basarsi contemporaneamente su roccia e sabbia, materiali gentilmente offerti, assemblati e/o triturati dal batterista, e la struttura che ne risulta si erge, oscilla e collassa per poi auto-costruirsi ogni manciata di battute. Un disco che anni fa sarebbe stato recensito a fianco dell’ultimo dei Cheer Accident o dei Gorge Trio, oggi trova principalmente posto negli scaffali o sui computer di sparuti amanti del genere, e si materializza in live che meriterebbero un pubblico più vasto e un palco migliore rispetto a quelli di una sala concerti di periferia o di un centro sociale, senza nulla togliere ad entrambe le categorie portate ad esempio. Antinomia è un ottimo biglietto da visita per affacciarsi sul vastissimo territorio del math-rock, ma la band di Ravenna, per evolvere da spora ipogea in albero e poter ergersi al di sopra degli altri, dovrà forse servirsi di nuove fonti di nutrimento e rendere più personale il proprio suono.
Al momento lasciatemi allora valutare i Miotic per quello che sono e quello che fanno: un gruppo dalle eccelse doti tecniche alle prese con un onesto, intricato e poderoso rock strumentale. Sì, perché demonizzare la tendenza dei musicisti post rock ad incasinarsi la vita e ritenerla il peggiore difetto del genere sarebbe un po’ come tagliare baffi e basette a Lemmy Kilmister o togliergli il Rickenbacker: senza non sarebbe più la stessa cosa.
(Autoproduzione, 2013)
1. Ubique
2. Teethcake
3. The Dog And The Hole
4. Mausoleo dell’Eterno Distacco
5. Antinomia
6.Machinery
7. Philip, The Glass Elephant