Nel vasto panorama del post-rock, i MONO sono una presenza costante e inconfondibile. Dopo oltre due decenni di carriera, la band giapponese continua a esplorare le profondità dell’emozione umana attraverso paesaggi sonori che sfidano i confini del genere. Con OATH, il loro dodicesimo album in studio, i MONO tornano a farci immergere in un’esperienza meditativa e trascendentale, dove il tema centrale è il tempo – una risorsa limitata e preziosa, che l’album celebra con una maestosa delicatezza. La copertina del disco è altrettanto evocativa: due figure che sembrano abbracciarsi emergono da una coltre di nuvole, come se fossero scolpite nell’immensità impalpabile del cielo. È un’immagine molto emozionante che riflette perfettamente l’atmosfera eterea e intangibile dell’album, suggerendo un senso di connessione e intimità che si perde nei meandri del tempo e dello spazio, proprio come la suggestive trame musicali scolpite dai Nostri. OATH, tra l’altro, è anche segnato da un’ulteriore dimensione emotiva, legata alla recente scomparsa di Steve Albini, produttore e ingegnere del suono che ha collaborato a lungo con la band. La prematura dipartita di Albini rende l’ascolto dell’album ancora più intenso, poiché il legame artistico e personale che univa i MONO a lui è palpabile in ogni nota. Albini non è stato solo un collaboratore tecnico per i giapponesi, quanto più un vero amico che ha saputo comprendere e tradurre il loro suono in modo unico; questo nuovo lavoro, in tal senso e più di ogni altra volta, sembra davvero impregnato del suo spirito.
Si tratta di un’opera che, pur non discostandosi completamente dagli schemi sonori del passato, restituisce una nuova centralità agli elementi orchestrali, già protagonisti in lavori precedenti come il meraviglioso Hymn to the Immortal Wind del 2009. In OATH, questi arrangiamenti tornano ad avere priorità, aggiungendo nuove sfumature e intensità allo stile inconfondibile dei post-rocker giapponesi. Come una colonna sonora per la contemplazione della vita e della sua finitezza, l’album scorre con una lentezza calcolata, accompagnandoci in un viaggio sonoro che richiede pazienza, ma in cambio restituisce una profonda ricompensa in termini di emozione e riflessione. L’apertura dell’album è affidata a una trilogia (“Us, Then”, “Oath”, “Then, Us”), che imposta immediatamente il tono riflessivo e circolare del disco. Si tratta di un’introduzione sottile e progressiva, dove l’atmosfera si costruisce delicatamente, quasi come un’alba sonora dapprima minimale e successivamente intensa e grandiosa. Queste prime tre tracce fungono da cornice per il resto dell’album, invitandoci a lasciarci trasportare da una narrazione sonora continua, che non ha certamente bisogno di parole per esprimere la sua profondità. Uno dei momenti più intensi arriva con la successiva “Run On”, il cui arpeggio minimale iniziale si evolve lentamente, sospeso in un’atmosfera soffusa e ambient, punteggiata da glitch sottili che aggiungono uno straniante senso di instabilità e dinamismo. A metà brano le chitarre distorte si intrecciano con gli archi, generando in questo modo un’energia maestosa e cinematografica, come una tempesta inarrestabile o una valanga che travolge tutto al suo passaggio. La sezione ritmica accelera progressivamente, e pur mantenendo intatta la melodia principale, il brano cresce costantemente, trascinandoci in una fuga rocambolesca, tra possenti colpi alla batteria, sfuggenti elementi orchestrali e riff saturi di chitarra. Con “Reflection”, invece, la band dimostra la consueta capacità di alternare maestosità e intimità: le malinconiche note di pianoforte iniziali evocano atmosfere sospese fuori dal tempo, quasi sacrali, che ricordano le atmosfere dei primi lavori dei God Is An Astronaut. Il tono scuro e chiuso del pianoforte è contrastato da tremoli di chitarra che si espandono in sottofondo, come se fluttuassero liberi in un’atmosfera sospesa. È con l’ingresso epico dei colpi di rullante, insieme alle armonie chitarristiche riverberate, che il pezzo acquisisce una dimensione onirica e solenne. Man mano che il brano prosegue, la sezione ritmica si fonde con le note iniziali del pianoforte, arricchendole di una carica emotiva che cresce in modo inesorabile; anche se il leitmotiv della melodia si ripete, la magia risiede in ciò che accade intorno: le armonie che si stratificano e la deliziosa sinergia degli strumenti che dialogano tra loro creano una particolarissima sensazione di movimento malinconico. La melodia del pianoforte, sempre presente, è una sorta di ancora presente in tutto il brano, e quando infine si interrompe, la sua assenza lascia un vuoto palpabile, come se mancasse un elemento fondamentale della narrazione sonora. È proprio in quel momento che l’emozione arriva al suo apice, e il silenzio finale ne guadagna in potenza. Un altro brano particolarmente affascinante è “Hear the Wind Sing”, che rappresenta un momento di coesione spontanea, dove il preciso dialogo tra gli strumenti evoca l’atmosfera di una sessione live, quasi jammata. Il fluire del brano rimanda all’impalpabile presenza del vento che soffia (tema caro ai MONO, già esplorato nel sopracitato Hymn to the Immortal Wind del 2009), libero da vincoli e con una dose importante di imprevedibilità; questo rende la traccia una delle più organiche e coinvolgenti dell’album. Anche qui, un delizioso pianoforte dona un sapore dolce alla composizione, persino nelle sue fasi più concitate. Consiglio di recuperare la splendida versione live in studio disponibile su YouTube, che amplifica ulteriormente la bellezza e l’intimità di questo pezzo. La bellezza di OATH risiede anche nei dettagli: “Hourglass” e “Moonlight Drawing” si distinguono per le loro atmosfere cinematografiche, con note che sembrano rallentare il tempo per creare uno spazio di riflessione. In “Hourglass”, i timidi accordi iniziali, quasi à la Interstellar, si trasformano lentamente in un flusso sonoro denso di archi e tremoli riverberati, e sembra quasi di essere ipnotizzati dall’incedere delicato della trama sonora. Allo stesso modo, “Moonlight Drawing” si costruisce delicatamente, introducendo percussioni che si mescolano a fraseggi di chitarra ripetuti, portando speranza e luce in un crescendo che, come una tipica composizione dei MONO, esplode con grazia e misura, anche e soprattutto grazie all’intensificarsi del pattern di batteria. Anche in “Holy Winter”, dalla durata simile, ritroviamo lo stesso principio di costruzione lenta e graduale. A questo punto dell’album si è ormai completamente avvolti dall’incantesimo dei giapponesi: le chitarre trionfanti, le dolci note di pianoforte e l’equilibrio delicato tra la sezione ritmica e le melodie in evoluzione creano un’atmosfera avvolgente in cui possono fiorire tantissime emozioni. L’inverno evocato da questa traccia, però, non è freddo: al contrario, trasmette un senso di calore crescente, culminando nel finale con un violino che ricorda la magia dei Sigur Rós in “Viðrar Vel Til Loftárása”. È un brano che racchiude un senso di trionfo emotivo, trasportandoci in una dimensione atemporale di nostalgia e speranza: le chitarre poste in chiusura dipingono un ossimoro sonoro in cui la malinconia si fonde con una travolgente e irruenta euforia. Sebbene le ultime tracce, “We All Shine On” e “Time Goes By”, possano apparire leggermente ripetitive nella loro struttura, non si può negare la forza emotiva che portano con sé. I crescendo lenti e le chitarre sature di riverbero creano momenti di pura estasi sonora, soprattutto nella prima, facendoci sentire parte di un’emozione che si accumula lentamente in modo quasi magico. “Time Goes By”, in particolare, incarna il senso profondo dell’album: il tempo continua a scorrere, indipendentemente da noi, e la musica ce lo ricorda con la calma che segue il climax. È come un epilogo dolce, che ci culla dopo la deflagrazione sonora, lasciandoci sospesi in una riflessione serena e profonda.
In conclusione, OATH non è semplicemente un’altra tappa nella discografia dei MONO, quanto piuttosto una profonda meditazione sulla nostra esistenza, che proprio grazie al tempo ha modo di disvelarsi in tutte le sue imprevedibili (ma pur sempre bellissime) ramificazioni. La sua bellezza risiede nella capacità di offrire un’esperienza sonora che ci invita a rallentare, ad ascoltare e a riflettere su ciò che conta davvero. È uno dei lavori più introspettivi e meditativi dei musicisti giapponesi, dove i settanta minuti di durata e l’approccio più orchestrale rispetto al classico post-rock richiedono una certa dose di attenzione e impegno, che sapranno tuttavia regalare un ventaglio esteso di emozioni profonde a chi deciderà di lasciarsi coinvolgere. E nonostante alcuni passaggi possano risultare familiari ai fan di lunga data, OATH mantiene intatta quella magia che ha sempre caratterizzato i MONO, elevandola a nuove vette attraverso arrangiamenti raffinati e una produzione impeccabile. La collaborazione con Steve Albini, indissolubilmente intrecciata al loro suono, rende questo disco ancora più significativo, testimonianza di un’affinità artistica che ha da sempre saputo catturare l’essenza della loro musica, e anche questa volta, che purtroppo sarà l’ultima, non fa di certo eccezione. In un’epoca in cui tutto scorre in fretta, i MONO ci invitano a fermarci, a respirare e a trovare bellezza nella contemplazione. Ed è proprio in questa pausa che possiamo scoprire quanto sia prezioso e irripetibile ogni istante delle nostre piccole e meravigliose esistenze terrene.
(Pelagic Records, 2024)
1. Us, Then
2. Oath
3. Then, Us
4. Run On
5. Reflection
6. Hear the Wind Sing
7. Hourglass
8. Moonlight Drawing
9. Holy Winter
10. We All Shine On
11. Time Goes By