Abbiamo fatto una chiacchierata con Nate Hall, uno dei più interessanti e prolifici personaggi dell’underground a stelle e strisce. Dopo la lunga esperienza con gli U.S. Christmas, Hall torna oggi con un nuovo progetto chiamato Uktena: di questo, e molto altro, abbiamo parlato con lui.
Innanzitutto, vorrei che tu presentassi ai nostri lettori questo nuovo progetto chiamato Uktena. Quando è nato? Come hai messo insieme la band?
Gli Uktena sono nati nella mia testa anni fa. Volevo creare qualcosa di indipendente rispetto all’altra mia band [gli US Christmas, ndr]. Inizialmente ho suonato insieme al mio amico Eric, che però mise in piedi una band che qui ha avuto un buon riscontro e dunque era occupato con quella. Avevo anche registrato una canzone con Tony Wyioming [musicista già collaboratore degli stessi USX, dei Minsk e altri, ndr], ma non era una cosa fattibile. Ho incontrato il nostro bassista Joe [Anderson] sul lavoro, e lui è più un chitarrista che un bassista, il che era ciò che idealmente volevo. E lui nemmeno sapeva chi io fossi, il che gli ha consentito una certa libertà. Ho incontrato Ben [Brower, secondo chitarrista] qui in città, e lui è un ragazzo concreto con cui condivido molti gusti musicali. Scott [Thomas] ha suonato la batteria con me per anni, quindi sapevo che con lui avrebbe funzionato. Volevo un suono di chitarra “zanzaroso” e molto personale, e volevo usare campionamenti sulla scia dei Buzzov*en, ma non così psicologicamente disturbanti. Un approccio più umanistico, con speranza e nuove idee. Per comprendere noi stessi come umani.
Posso trovare molti collegamenti con la tua band precedente, gli USX: “Uktena” è il titolo di una delle canzoni di Eat The Low Dogs; la parola “path” compare nel titolo sia di questo disco, che dell’ultimo che hai registrato con gli USX (The Valley Path); inoltre, è anche questo un disco con una sola lunga canzone, proprio come l’ultimo degli USX. Dunque ti chiedo: gli Uktena sono un progetto completamente nuovo, o una nuova incarnazione degli USX? E ancora: qual è lo stato attuale degli USX? Se non sbaglio, avete suonato qualche concerto ultimamente: questo potrebbe far presagire ad una ripresa delle attività in modo stabile?
Non credo nella fine delle cose, credo che nulla abbia davvero una fine. Quindi, gli USX stanno come stanno. A volte suoniamo dal vivo. Non sembra succedere nient’altro, ma a me sta bene. Gli Uktena sono un’altra band, un altro capitolo della mia vita ed un investimento che io e gli altri ragazzi abbiamo fatto in esso. Il nome viene dal folklore, da quello Cherokee per l’esattezza, anche se il serpente cornuto [per l’appunto Uktena, ndr] si manifesta in molte culture. Sono attratto dal simbolismo, dal folklore, dall’antica cultura ed i moderni problemi che riguardano i popoli della First Nation. Voglio che queste cose siano presenti nella coscienza collettiva. Da essere umano americano, l’America significa per me qualcosa di diverso rispetto alla maggior parte delle altre persone. Non penso ai presidenti, alle città, al denaro o alle macchine. Penso alle persone che hanno vissuto vite autentiche, che hanno compreso e comprendono ciò che è vero e senza tempo. Ho studiato, ed ho sentito con le mie orecchie, le parole di chi è stato davvero parte di questo mondo. Gli Uktena, auspicabilmente, porteranno altri a conoscere queste persone, le loro parole, azioni ed idee.
Our Path to Trouble mostra un approccio muscolare: il suono è pesante ed aggressivo, molto meno introspettivo rispetto a tutta la tua precedente produzione. Puoi confermare questa impressione?
L’approccio che abbiamo avuto per questo disco è stato molto più concentrato sui suoni di chitarra e sul caos, sui feedback, sull’esempio di molte grandi band (Ulver, Eyehategod, Buzzov*en, Entombed). Ciò che dico potrebbe non aver senso se guardiamo ai suoni del disco, ma io mi sono divertito in un certo senso a lasciarmi andare e seguire il “rumore”. La BLK/TRI [ditta dell’Ohio che costruisce pickup artigianali, ndr] mi ha costruito un humbucker custom per la mia Les Paul. Ho detto a Mike [Moses, padrone della BLK/TRI, ndr] che cercavo qualcosa di particolare in termini di toni, e lui si è messo al lavoro. Ben [Brower, secondo chitarrista] ha usato la mia Monson Rapture, quella in noce che monta i P90S [dei particolari pickup prodotti dalla Gibson, ndr]. Joe [Anderson, il bassista] non ha usato il mio basso Warlock neck-thru, ma se l’è comunque cavata bene ed ha aggiunto alcuni effetti particolari. Scott [il batterista] ha ovviamente fatto un ottimo lavoro, ed io ho persino inserito il mio cagnolino Chihuali nel mix.
Perché hai scelto – ancora una volta – di realizzare un album con una sola canzone? Ti senti più a tuo agio con questo tipo di soluzione, piuttosto che con la classica suddivisione in singoli pezzi?
Mi piace molto la fluidità dei dischi con una sola traccia. È divertente costruirle, ed è inoltre molto comodo quando si ha uno come Travis [Kammayer, produttore del disco] dall’altra parte della console a mixare, editare ed a metterci la propria creatività. È un mix di struttura meditata, e creazione improvvisata.
L’album contiene – o, potrei dire, è guidato – da alcuni campionamenti contenenti discorsi di John Trudel, un autore ed attivista nativo americano. La stessa parole “Uktena” appartiene alla mitologia nativo-americana. Quanto, e perché, la cultura nativa è importante nella tua vita e nella tua arte?
In parte ho già risposto, ma sì, John Trudell è stato un grande rappresentante degli indigeni d’America, ed allo stesso tempo un grande artista. L’ho scoperto per la prima volta grazie al documentario di Robert Redford “Incident at Oglala”, un film molto importante che parla della storia americana così come dell’attuale conflitto con le grandi compagnie petrolifere [il riferimento è al South Dakota Stream Pipeline, ndr] e altri soggetti dello stesso stampo. Le sue parole sono necessarie oggi più che mai.
Our Path to Trouble è un concept album? Qual è il suo tema centrale?
C’è molto che potrei dire, ma la prima cosa che mi viene in mente riguardo al “concept” è solo di imparare su noi stessi ed il nostro autentico significato.
Il disco è uscito sotto Hypershape Records, un’etichetta italiana. Ci puoi raccontare come sei entrato in contatto con loro? E perché non hai scelto una label americana? Hai avuto una lunga collaborazione con la Neurot…
Le label, in generale, non sono molto affidabili. Ho scelto la Hypershape perché conosco Giorgio [Salmoiraghi] e lui si è dimostrato seriamente intenzionato a pubblicare il disco, e ne ha fatto una priorità. È stata di gran lunga la più rapida e comoda release che io ricordi, relativamente a quello che ho fatto in prima persona.
Definisci la tua musica come “Appalachian metal”: puoi spiegare cosa significa?
L’Appalachia è casa mia, la mia cultura. È il mio mondo in molti modi. Voglio che la gente sappia cos’è davvero qui.
Hai anche una carriera solista, ed hai pubblicato molti split album insieme ad altri artisti della tua area. Questo dimostra un’urgenza espressiva che credo sia ormai l’unico vero “motore” che spinga a fare musica oggi, dato che i musicisti non riescono più a guadagnare abbastanza per vivere della propria arte. Sei d’accordo?
È difficile per i veri artisti riuscire a guadagnarsi da vivere, senz’altro. E c’è una differenza tra me ed un sacco di orribili ciarlatani yoga-new age che ci sono in giro, e fanno un sacco di soldi. La vedo come un’irrispettosa appropriazione della mia cultura: fare gli alternativi coi soldi di papà, sembrare sudici di proposito e cantare di cose mai davvero vissute o comprese. Ma se lo fai, ti becchi un bel po’ di quattrini, ormai. Ma io rappresento persone reali. O almeno non fingo. Ad ogni modo, sono contento di avere un lavoro “normale”.