Con questo speciale vorremmo inaugurare una sorta di rubrica, una serie di approfondimenti non su grandi band del passato ma su realtà più o meno note che stanno lentamente emergendo dall’underground internazionale, riscontrando sempre più consensi da parte di pubblico e critica. E’ il caso degli Horseback ad esempio: il progetto solista di Jenks Miller, pur rimanendo in parte ancorato ad una tradizione “indipendente” (lo dimostra attraverso collaborazioni e split con vari artisti) è ormai un nome di punta in un “genere” sempre più in voga, e il contratto con la Relapse è un’ulteriore prova. In questo speciale, abbiamo deciso di accostarlo ai Pyramids, prendendo come pretesto l’album, uscito quest’anno per la Hydra Head di Aaron Turner, da loro scritto insieme a Horseback. Il lavoro in sé, come leggerete di seguito, è stato abbastanza deludente, e potrebbe aver scoraggiato chi non li conoscesse dall’approfondire la storia dei Pyramids, che in realtà è un gruppo molto valido, che ha nella propria discografia pochi dischi ma di grande qualità. Non intendiamo annoiarvi oltre, visto che lo speciale in questione è già piuttosto lungo; speriamo solo che questa nostra iniziativa venga apprezzata, sia da chi già conosce i gruppi trattati sia da chi magari li scoprirà grazie a noi, e speriamo anche di poter offrirvi presto una seconda puntata (tra l’altro, se avete suggerimenti son bene accetti!). Buona lettura.
Tutto lo speciale è a cura di Ico & Bastard
NB: tutte le recensioni sono disponibili sia di seguito sia nel nostro archivio.
Indice:
Pyramids > Pyramids (Ico)
Pyramids & Nadja > Pyramids & Nadja (Ico)
Mamiffer / Pyramids > Split (Ico)
Pyramids & Horseback > A Throne Without A King (Bastard)
Horseback > The Invisible Mountain (Bastard)
Hoseback > The Gorgon Tongue (Bastard)
Horseback > Half Blood (Bastard)
Pyramids > Pyramids
(Hydra Head Records, 2008)
Il debutto omonimo dei Pyramids è un disco che non può non suscitare curiosità, per la sua difficile collocazione in un genere ben definito e per la difficoltà che chiunque è costretto a provare se vuole darne una descrizione comprensibile. E’ un opera che si posiziona sull’incerto confine tra genialità e assurdità, che vive di anime molto diverse tra loro è che ha proprio in questa strana convivenza di opposti umori il proprio punto di forza (ma il rischio che sia anche il punto debole è molto alto).
Parlare di post rock è troppo semplice, così come nelle parti più atmosferiche citare i Sigur Ròs è quasi superfluo; diremmo piuttosto che, nella musica dei Pyramids, su affreschi sonori di chiara ispirazione scandinava (soprattutto islandesi, si) si intrecciano trame di liquide chitarre shoegaze sorrette da un drumming nervoso di matrice black metal. La definizione appare ovviamente paradossale, perciò la cosa migliore è lanciarsi nell’ascolto di queste dieci tracce, distribuite in mezz’ora, e scovare da sé i riferimenti più soddisfacenti.
L’iniziale “Sleds” è quanto di più etereo ci possa essere, con le sue voci angeliche che si stagliano su panorami ghiacciati: se ci si basasse solo su questi primi minuti, Pyramids sembrerebbe un ascolto semplice e piacevole, ma già con “Igloo” la band americana cambia le carte in tavola, mostrando tutto il proprio amore per le dissonanze e il noise più elettronico. “The Echo Of Something Lovely”, con questo titolo che sa di manifesto, ci riporta su scenari paradisiaci, ma è solo un’illusione che questi abili tessitori ci offrono prima di farci ricadere nel baratro, sballottati nel loro caleidoscopio di suoni e rumori. Si distingue tra le altre “Hellmonk”, che riassume al meglio gli elementi citati poco sopra: prismi multicolori si scontrano placidamente, con un drumming frenetico di sottofondo a creare un tappeto di battiti infiniti su cui si alternano (nella seguente “This House Is Like Any Other World” con ancora più evidenza) vocalizzi confusi immersi in un continuo feedback.
La formula, una volta fatta propria dopo ascolti più o meno numerosi, è effettivamente ad alto rischio di ripetitività, ma il minutaggio contenuto a cui si sono saggiamente limitati gli americani rende l’album un’esperienza sempre piacevole, se si è disposti a scendere nelle sue profondità soniche e a perdersi nei suoi cangianti scenari. Pyramids forse non è un disco geniale, ma il parto di menti che sanno maneggiare con grande perizia gli strumenti di cui sono a disposizione: la volontà di spiazzare l’ascoltatore con questo perpetuo avvicendamento melodia / rumore è quasi ostentata, ma se si ha la pazienza di “stare al gioco” si riuscirà a trarre sensazioni sempre piacevoli da questo ascolto, perdendosi più dentro sé stessi che dentro la musica vera e propria. Gioiellino.
7.5
Pyramids & Nadja > Pyramids & Nadja
(Hydra Head Records, 2009)
Pyramids & Nadja è un lavoro splendido, che chiunque abbia anche solo un minimo interesse per la musica ambient in senso lato (da Brian Eno al drone più cupo) dovrebbe ascoltare. Non sono rari i casi in cui due band decidono di collaborare nella stesura comunitaria di un vero e proprio album e non di un semplice split, ma in queste occasioni il pericolo di non produrre un’opera all’altezza delle qualità dei singoli progetti coinvolti, o semplicemente di annullarsi a vicenda, è piuttosto alto. Invece, in questo Pyramids & Nadja le anime dei due progetti convivono in maniera incredibile, e il tutto è arricchito da una serie di ospiti di lusso, da Albin Julius a Simon Raymonde dei Cocteau Twins, dal poliedrico Colin Marston all’onnipresente James Plotkin.
L’essenza dei Pyramids qui è dilatata al massimo in un minutaggio che rimanda molto più ai Nadja, le tipiche accelerazioni di batteria sono quasi del tutto assenti mentre i panorami eterei che caratterizzavano l’esordio sono come cristallizzati. La coppia Baker/Buckareff infonde tutta la propria esperienza nel plasmare le qualità astratte e talvolta “confuse” dei più giovani colleghi, mostrando la propria anima più delicata e relegando ad episodi sporadici la componente drone dominante nei loro lavori più ostici, evidenziando poi un notevole gusto per la melodia, per quanto “dilatata”, che sarà poi sviluppato in lavori come il bellissimo Ruins Of Morning o il recente Dagdrøm.
Si parte con “Into The Silent Waves”, traccia dal titolo quasi programmatico di cui esistono due remix, peraltro molto ben riusciti, ad opera di Lustmord e degli Ulver. Coi suoi dieci minuti di durata è il pezzo più breve del disco, ma ne introduce al meglio gli elementi fondamentali, i contrasti tra paesaggi sonori luminosi e le parentesi più cupe, oltre a tradirne pure le influenze: i compianti The Angelic Process (soprattutto quelli di Weighing Souls With Sand), ma anche gli ultimi Ulver e qualcosa dei progetti più minimali di Justin Broadrick. Si prosegue con “Another War”, in cui Faith Coloccia dei Pyramids (anche nei Mamiffer) al piano duetta con Chris Simpson (cantante della sottovalutata band emo-rock Mineral), che impreziosisce il brano con una prova vocale assolutamente incantevole, ritagliandosi un ruolo da protagonista nei momenti in cui la sua interpretazione è più emozionante e malinconica. Di tutt’altra pasta la monolitica “Sound Of Ice And Grass”, in cui emergono più che mai i succitati contrasti: ambient e drone s’intrecciano continuamente in venti minuti di astrattismo puro, in cui di tanto in tanto si stagliano le ombre dei Sunn O))) di Monoliths & Dimensions. Tra tutti probabilmente è questo il brano che stimola di più, carico com’è di carica evocativa e della capacità di suscitare le emozioni più diverse in un’unica traccia, che riesce a rifuggire sempre il rischio di far calare l’attenzione. Nella conclusiva “An Angel Was Heard To Cry Over The City Of Rome” ritroviamo le tipiche cavalcate dei Pyramids, che però si prolungano per quasi tutta la durata del brano, e sul quale veleggiano vocals sognanti e malinconiche che traghettano l’ascoltatore verso la fine di questo viaggio sonoro intenso e profondo.
Giunti alla fine, è difficile risvegliarsi dal torpore mentale. Ma la cosa che fa capire davvero la qualità di questo album è la sua longevità: anche dopo numerosi ascolti, Pyramids & Nadja non perde un briciolo della sua potenza emotiva ed espressiva, risultando un’esperienza sempre piacevole e adatta a distendere i nervi così come a perdersi nell’abbraccio di una musica evocativa e intima. Questo disco è un piccolo capolavoro, frutto dell’unione perfetta di menti evidentemente molto compatibili. Da avere.
8.0
Mamiffer / Pyramids > Split
(Hydra Head Records, 2012)
Qualcuno potrebbe storcere il naso, a vedere i nomi coinvolti in questa uscita. Si tratta di uno split tra i Mamiffer, progetto solista di Faith Coloccia, e i Pyramids, dei quali lei stessa fa parte, che esce per la Hydra Head di Aaron Turner, compagno di vita della stessa Coloccia. Ma non è la prima volta che da quelle parti si fa “tutto in famiglia”: non è dunque il caso di scandalizzarsi, anche perché gli elementi interessanti in questi tre pezzi ci sono.
I primi due brani, a nome Mamiffer, sono una piacevole sorpresa: Faith sembra aver fatto tesoro del lavoro svolto su Bless Them That Curse You, l’album scritto in collaborazione coi Locrian. Infatti, a differenza di quanto accadeva in passato, il minimalismo dei Mamiffer non si traduce nel suono del solo pianoforte, ma viene arricchito (o forse sarebbe meglio dire “impoverito”) da elementi molto più vicini al noise, dando un retrogusto “elettronico” ad un brano altrimenti piatto come “Sophia”. Questa caratteristica è ancor più evidente nella successiva “Tichà Noc”, che nei suoi dieci minuti tende un po’ a perdersi ma che in fin dei conti risulta essere migliore della maggior parte dei brani contenuti in Hirror Enniffer e Mare Decendrii, in virtù di questa più marcata varietà, esaltata anche dalla voce della Coloccia che interviene saltuariamente.
Il minimalismo dei Mamiffer però in quest’occasione contagia, e non poco, anche i Pyramids: nell’unico brano da loro presentato non c’è traccia della schizofrenia a cui ci hanno abituato in passato, di quei ritmi nervosi che contraddistinguono i loro vecchi pezzi o quelli da loro scritti coi Nadja. “This Is One For Everyone” è un piccolo trip ambient fatto di delicati rumori di fondo e sussurri più o meno evocativi, che vanno a creare un’immagine di calma piatta che non riesce a incantare più di tanto, risultando anzi in fin dei conti una composizione piuttosto semplice e pure un po’ noiosa. Questi Pyramids più secchioni e meno estroversi non convincono, ma sicuramente dimostrano ancora una volta come all’interno di un unico nome vivano anime molto diverse: preferiamo però quando queste s’intrecciano con risultati più esaltanti.
Il giudizio finale è controverso. Sarebbe facile pensare che questo lavoretto sia nato da un “capriccio” di Faith Coloccia, ma forse è più giusto a supporre che entrambe le band abbiano voluto seguire una “linea comune” ben precisa, e che lo scopo di entrambe fosse produrre un disco prevalentemente legato all’ambient e al minimalismo sonoro; tuttavia, a beneficiare del risultato finale sono sicuramente i Mamiffer, che “fanno più bella figura”. In ogni caso, questo resta uno split godibile, una mezz’oretta di musica delicata decisamente ben suonata.
6.5
Pyramids & Horseback > A Throne Without A King
(Hydra Head Records, 2012)
Dopo un singolo uscito esclusivamente su quelli che anni fa venivano chiamati 45 giri, due split con Locrian e Voltigeurs (progetto di Matthew Bower, già nei Skullflower) e la versione in cassetta di Forbidden Planet, che nel 2011 uscirà per Relapse assieme a Impale Golden Horn dando vita a quell’uscita chiamata The Gorgon Tongue, la Hydra Head Records annuncia la pubblicazione di una collaborazione vera e propria fra Pyramids e Horseback.
Orecchie tese ed in fibrillazione quindi per questa particolarissima proposta che vede un mix fra due progetti molto originali e che hanno avuto un discreto successo di pubblico: ricordiamo a questo proposito la splendida collaborazione fra Pyramids e Nadja. Le premesse per un lavoro quantomeno interessante, se non ottimo, ci sono tutte. Purtroppo però, questo entusiasmo è destinato a scemare via via che si procede con l’ascolto del disco, ma andiamo con ordine: A Throne Without A King contiene sei tracce, quattro di pura collaborazione fra i due progetti, mentre le due rimanenti sono frutto delle menti singole di Pyramids e Horseback. “Thee Cult of Henry Flynt” è il brano presentato da Jenks Miller, che si allontana con forza da quanto fatto in precedenza; qui ci troviamo di fronte ad una base fortemente black metal, a base di drum machine e di rumorismi vari. Si potrebbe quasi pensare ad un tentativo di assimilare la lezione dei Locrian a quella di un certo Xasthur, con vocals distanti e molto vicine a quelle di Malefic. I Pyramids invece ci propongono un brano dal sapore tragico, “Phaedra’s Love”, in cui passaggi dal sapore ambient (stile collaborazione con Nadja) si alternano a bordate pesantissime, e francamente non troppo convincenti, di drum machine. I restanti brani, a progressione numerica da “A Throne Without A King pt.1” a “A Throne Without A King pt.4”, si orientano verso un registro leggermente diverso di influenze e sperimentazioni: la base è sempre quell’anima noise che nei rispettivi progetti rimane più in penombra, in alcuni casi sorretta da efficaci loop vicini al dark ambient (“A Throne Without A King pt.3”) o da sovraincisioni parlate (“A Throne Without A King pt.1”), ma più spesso lasciata a se stessa con poche variazioni e passaggi abbastanza inconcludenti (il finale della pt.4 o la maggior parte della pt.2).
A Throne Without a King sembra quasi uno spreco, è difficile credere che due progetti così particolari non siano riusciti a dare vita ad una collaborazione più alettante e personale, ma purtroppo succede anche questo. Chi apprezza sonorità più rumorose potrebbe trovare qualcosa di interessante in questa uscita, ma per chi scrive i brani risentono di una mediocrità quasi palpabile; in ogni caso i fan di Pyramids e Horseback sono tenuti perlomeno ad ascoltare un paio di volte A Throne Without a King, se non altro per capire a fondo il background o l’eventuale evoluzione musicale di questi due progetti.
5.0
Horseback > The Invisible Mountain
(Relapse Records, 2009)
Horseback esordisce in grande stile e non in pochi se ne sono accorti: uscito dapprima per Utech Records (Locrian, Aluk Todolo e Nadja fra gli altri) viene poi preso sotto l’ala protettrice della Relapse che ne cura la ristampa in cd e, successivamente, la Aurora Borealis (già al lavoro con Moss, Silvester Anfang e Guapo) decide di rendere disponibile The Invisible Mountain anche in versione vinilica limitata a poche centinaia di copie. Il motivo di tanto successo? Probabilmente il fatto che l’attenzione generale negli ultimi anni si sia canalizzata verso i sottogeneri del doom e verso soluzioni sperimentali non proprio ortodosse che spesso hanno fatto storcere il naso agli ascoltatori più tradizionalisti.
Fortunatamente il motivo di tanta risonanza non è dovuto solo alla mutevole attenzione dei fan, ma soprattutto all’oggettiva qualità di un progetto come Horseback. Jenks Miller, unico mastermind del progetto, riesce a fondere con una facilità disarmante un’enorme varietà di influenze: si parte da una profonda matrice stoner doom (sentire l’inizio di “Tyrant Symmetry” per esempio) e talvolta rock per arrivare a passaggi dal sapore decisamente più kraut e psichedelici (la conclusiva e splendida “Hatecloud Dissolving Into Nothing” o la ripetitività di alcuni riff) e ad una vaga reminiscenza più sozza ed estrema per quanto riguarda il particolarissimo cantato. “Invokation”, il brano posto in apertura, è l’emblema della semplicità, in quanto si basa su poche note di chitarra e un unico tempo di batteria con un paio di minime variazioni, ma nonostante ciò colpisce subito per la capacità che ha di avvolgere chi ascolta nel suo ritmo al punto di lasciare un vago sapore di amaro in bocca nel suo sfumare finale.
Dicevamo, dunque, anche di una grossa dose di stoner, verso quelle atmosfere calde e soffocanti (verrebbe da dire quasi afose) tipiche di gruppi come Electric Wizard o Earth a cui va comunque aggiunta qualche goccia di alienazione che può arrivare direttamente dagli OM e che può fare solo bene. Ma questo è solo un assaggio delle potenzialità del buon Miller: anche in questo caso, e come succederà nell’ultimo Half Blood, l’anima più dannatamente psych lotta con una forza tremenda per emergere e per ricevere ciò che si merita, svelandosi pienamente in “Hatecloud Dissolving Into Nothing”. Discostandosi leggermente da ciò che era già stato sperimentato in Impale Golden Horn e che sarà ripreso in Forbidden Planet e ancor di più dalla successiva, e purtroppo poco riuscita, collaborazione con i Pyramids, l’ultimo brano presente in The Invisible Mountain è una lunga, lenta e suadente litania che si sorregge esclusivamente su qualche fraseggio di chitarra acustica e cantato, giungendo ad un finale che strizza un po’ l’occhio al drone e alla malinconia di certo post- (rock).
Per tutti questi motivi si può considerare The Invisible Mountain come l’episodio migliore della discografia Horseback che, dopo varie sperimentazioni, ritroverà nuova linfa vitale nel suggestivo Half Blood uscito quest’anno.
8.0
Horseback > The Gorgon Tongue
(Relapse Records, 2011)
Uscito nel 2011 per l’onnipresente (negli ultimi tempi) Relapse Records in doppio cd, The Gorgon Tongue contiene due uscite originariamente separate ed indipendenti sia a livello fisico sia a livello più strettamente musicale. Le uscite in questione sono Impale Golden Horn, datato 2007 ed inizialmente pubblicato da Holidays for Quince and Burly Time Records, e Forbidden Planet, di tre anni successivo e targato Brave Mysteries (già al lavoro con Burial Hex e Bong); la Relapse, pur pubblicandole insieme, decide intelligentemente di suddividere comunque i due episodi, uno per cd in pratica.
Andiamo in ordine cronologico e iniziamo dai brani presenti in Impale Golden Horn. Minutaggi lunghissimi la fanno da padrone, con l’apice nell’infinita “Finale” dalla durata di ben diciassette minuti; si tratta di lunghezze comunque necessarie per quello che vi viene proposto, ovvero un grande lavoro drone (di tutt’altro tipo rispetto a Sunn O))) o Earth) condito da una enorme quantità di psichedelia aggiunta. Se il brano appena citato però non riesce a mantenere alta l’attenzione a causa del suo immobilismo, le successive “The Golden Horn” e “Laughing Celestial Architect” riescono meglio nel proprio intento: esplorando territori legati più a Barn Owl e al kraut, ci troviamo di fronte a due brani dall’atmosfera quasi solare e spensierata. Di tutt’altra pasta invece la conclusiva e spiazzante “Blood Fountain” con il suo cantato quasi “cantautoriale” e l’ossessivo ripetersi di arpeggi chitarristici di sottofondo.
Forbidden Planet cambia leggermente il tiro. Brani più brevi e più intensi si accompagnano a sonorità decisamente più sporche e cupe, l’uso del cantato in stile The Invisible Mountain si incastra perfettamente anche in composizioni di questo tipo (“Veil Of Maya (The Lamb Takes The Lion)” è sicuramente la migliore di questa parte e seconda in generale solo a “Blood Fountain”) e qualche accenno ambient impreziosiscono un po’ il tutto (“A High Ashen Breeze (Part 2)” o “Introducing Blind Angels”) anche se sicuramente non ci troviamo di fronte al miglior materiale partorito da Miller.
In questo caso ci troviamo di fronte ad una specie di raccolta che rende disponibili due uscite difficilmente reperibili nei loro formati originali, ma purtroppo l’opera in questo formato risulta davvero pesante e difficile da digerire tutto in una volta. I brani migliori sono quelli che più si discostano dalla produzione complessiva di Impale Golden Horn e Forbidden Planet e questo è un segno abbastanza chiaro per quanto riguarda la qualità di queste releases. Sicuramente i fan più accaniti e i più appassionati a queste sonorità troveranno tanto pane per i propri denti, ma per noi questo è il punto più basso della discografia degli Horseback assieme alla già ampiamente commentata collaborazione coi Pyramids.
6.5
Horseback > Half Blood
(Relapse Records, 2012)
Il polistrumentista Jenks Miller è colui che si cela dietro al monicker Horseback, progetto che lentamente sta acquistando sempre più consensi fra chi predilige doom, drone o sperimentazione in generale. Una buona quantità di uscite, fra cui split con Locrian e Voltigeurs, oltre che una collaborazione coi Pyramids, condensate negli ultimi tre anni e un contratto con la onnipresente Relapse, hanno fatto in modo che il nome Horseback iniziasse a circolare sempre più spesso grazie anche all’indubbia qualità di un album come The Invisible Mountain.
Half Blood riprende in parte il discorso interrotto con The Invisible Mountain nel 2009, distribuendo lo spazio disponibile fra le sfumature più recenti di chiara ispirazione drone e il passato decisamente più strutturato a livello di composizione verso soluzioni più vicine a un certo stoner lisergico con tanto di vocals acide e graffianti a supportare il tutto. La prima metà di Half Blood riprende proprio quello stile, esagerando forse nel mettere così in primo piano il cantato, ma come si fa a non rimanere ipnotizzati dalle atmosfere caldissime alla Earth e dall’incedere alienante in stile OM? “Mithras”, “Ahriman” o “Arjuna” potrebbero tranquillamente comparire a fianco di “Invokation” (forse il miglior pezzo mai scritto da Jenks Miller) o di “Tyrant Symmetry”. I brani restanti invece si avvalgono di tutt’altro registro: la trilogia delle “Hallucigenia” è decisamente più minimale e drone, con divagazioni kraut, qualche influenza Locrian (“Hallucigenia I: Hermetic Gifts”) o addirittura qualche passaggio quasi “danzereccio” come si può sentire nella conclusiva “Hallucigenia III: The Emerald Tablet” che unisce lo stile più vicino a The Gorgon Tongue a una cassa fissa in 4/4 che potrebbe quasi uscire dai Fuck Buttons.
L’omogeneità delle precedenti uscite si è un po’ persa probabilmente, ma Half Blood è comunque un buonissimo lavoro che non fa che impreziosire la discografia del progetto Horseback. Qualche perplessità potrebbe sollevarla solo “Inheritance (The Changeling)”, ma nel contesto del disco le altre canzoni presenti riescono a farla dimenticare abbastanza facilmente. Ancora complimenti a Jenks Miller quindi.
7.0