Trentaquattro anni di carriera, quattordici album in studio, un percorso disseminato di canzoni spettacolari, vere pietre miliari di una proposta musicale – un calibrato ibrido tra death metal, progressive rock, orchestrazioni di classica estrazione e sospiri folkeggianti – che, diciamocelo, non ha mai visto gli Opeth precipitare qualitativamente al di sotto della sufficienza. Nel corso degli anni la band svedese è passata dalla furia tout court dei primi dischi – una veemenza che ugualmente mostrava fin da subito una certa raffinatezza che sarebbe esplosa da lì a poco – alla parte centrale del proprio percorso artistico, quello più amato dal pubblico, laddove un feroce death si mesciava ottimamente con un progressive rock/metal, mai troppo cervellotico, creando di fatto un sound riconoscibile, oserei dire unico, dotato com’era di personalità e consapevolezza. Gli ultimi lavori, quelli meno viscerali, hanno visto la band di Mikael Åkerfeldt prediligere un approccio leggero, un prog rock immerso totalmente nei Seventies, con album quasi cantautorali. La critica non è stata comprensiva, non accorgendosi che questi dischi rappresentano totalmente un’altra faccia della creatura Opeth. Come lo era il death roboante dei primi tre album, come lo sono state le uscite del periodo d’oro, quello dove la penna ha raggiunto un’armonia compositiva difficile da ripetere per anni. Almeno, così pensavamo tutti quanti, finché le nostre orecchie non hanno ascoltato questo nuovo lavoro in studio.
The Last Will And Testament è un concept album (che narra le vicende di una famiglia nel momento della lettura del testamento del patriarca e da qui tutta una serie di colpi di scena che evito di spoilerare o conoscerete già a menadito), il secondo dopo Still Life (non possiamo considerare Ghost Reveries un concept in quanto le canzoni al suo interno, pur trattando argomenti simili tra loro, non hanno un filo che li unisce a livello narrativo). Solitamente per un concept album l’approccio all’ascolto e all’analisi per redigere una recensione deve essere quasi maniacale. Ci si deve immergere completamente, quasi si trattasse di un’unica, lunghissima, traccia: The Last Will And Testament non fa eccezione in tal senso, anche in virtù di una qualità alta, se non altissima, di tutte le canzoni. Affermare che gli Opeth siano tornati ai fasti di un tempo, diciamo la parte centrale della loro carriera, è probabilmente un’esagerazione. Ciò non toglie che ora gli svedesi sono questa cosa qui, ossia un perfetto mix tra le varie anime espresse nei dischi precedenti. Il death metal torna a ruggire – e diciamolo, anzi ricordiamolo: il growl di Åkerfeldt è il migliore in assoluto – mentre le intricate congetture prog metal arricchiscono lo scenario, grazie anche a partiture dal sapore orchestrale (e qui il nuovo batterista Waltteri Väyrynen ci mette molto del suo, non in potenza ma in freschezza, varietà e dinamismi) e, dulcis in fundo, il cesello acustico e folkeggiante, roba che arriva prepotentemente dai Seventies, è il tocco (di grazia) finale. Le canzoni, intitolate tutte come dei paragrafi – esclusa l’ultima, dove si svelano tutti i segreti del concept – sono scritte benissimo, tenendo in equilibrio i diversi stili della band ma anche, se non soprattutto, tutti i musicisti chiamati in causa (tra i quali spiccano Joey Tempest alle seconde voci, Ian Anderson alle spoken words e, ovviamente al flauto traverso, e la London Session Orchestra per gli archi). In più ogni brano – e qui si torna al discorso fruizione concept – si anima di vita propria, arde e si trasforma in quello che segue, aumentandone la portata, il calore, la magnificenza. La produzione, manco a dirlo, è perfetta: pulizia assoluta che dona ad ogni passaggio la giusta luce.
Se dopo tutti questi anni e una serie quasi infinita di dischi tra il buono e l’ottimo, una band se ne esce con un simile lavoro, c’è solo da stropicciarsi gli occhi, strapparsi di dosso inutili preconcetti, smettendola di fare il bastian contrario a tutti i costi (tipo “sono finti, hanno scritto un disco facile, commerciale, ruffiano” che manco all’asilo si sentono simili castronerie). L’unica cosa da fare è mettersi comodi, alzare il volume a livelli osceni, schiacciare il tasto play e godere come ricci per un disco che è tranquillamente degno di stare tra i migliori di sempre. E no, non parlo solo di Opeth, bensì della musica tutta.
(Reigning Phoenix Music, 2024)
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