Intimità. È questa la prima parola che viene in mente ascoltando il nuovo lavoro di Pan•American, nome dietro cui si cela Mark Nelson dei Labradford.
Americana che si maschera da musica ambient. Chitarra, armonica e sottili trame elettroniche, Nelson lavora con una palette ridotta ai minimi termini. In The Patience Fader si abbandona totalmente la voce, non c’è niente che rompa la magia di quest’atmosfera di immobilità, di riflessione. Sono presenti l’influenza di un chitarrista come Roy Montgomery, delicate trame avvolte nel riverbero e un rimaneggiamento in chiave post-rock di chitarre blues e surf. La qualità cinematica della musica di Pan•American qui la fa da padrone, sembra di vedere una lunga sequenza di apertura di un film western contemporaneo in cui il vuoto del paesaggio e la sua immobilità sono più interiori che propri del luogo; vengono in mente registi come Hillcoat (The Proposition), Jarmusch (Dead Man), Dominik (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford). Il lavoro, nonostante una forte omogeneità, risulta uno dei più accessibili di Pan•American; infatti invece di aggiungere layer al suo tipico sound Mark Nelson lavora per sottrazione, con grande attenzione per le melodie che, anche se in un contesto diverso, risultano essere tipiche della musica americana del secolo scorso e quindi estremamente familiari. Una sorta di Ry Cooder invernale. La parte elettronica spesso è in background e raramente in primo piano, fatta eccezione per il breve interludio “Corniel”. Il dialogo tra chitarra ed elettronica è sicuramente il marchio distintivo dei lavori più riusciti di Pan•American e in The Patience Fader il lieve gorgoglio sintetico su cui si levano le melodie di chitarra è importantissimo per differenziare le canzoni di questo disco da semplici sketch chitarristici, sicuramente emozionanti ma forse troppo familiari. Ry Cooder viene evocato attraverso un largo uso della chitarra lap steel, ad esempio in “Harmony Conversion”, dove sottolinea ogni cambio di accordo con un gusto prettamente country. Lo stile chitarristico di Nelson in questo disco è sicuramente più sciolto e bluesy che in passato, invece il trattamento riservato all’armonica è sicuramente una fuga dall’immaginario altrimenti troppo statico dell’american folk: viene filtrata, affogata nell’eco e nel riverbero tanto che ricorda più un linea dub o un layer di Fennesz che un’armonica vera e propria; questo è evidente nella già citata “Corniel”, ma anche in “Wooster”, “Ohio” e “Grounded”. Ottimo il lavoro di produzione, i suoni e il loro posizionamento sono curati in maniera maniacale, c’è un fortissimo senso di spazialità.
Analizzare The Patience Fader traccia per traccia sarebbe sicuramente controproducente: è un viaggio che va fatto dall’inizio alla fine. Forse non possiede il fascino dei migliori lavori di Pan•American ma riprende il discorso di Mi Media Naranja dei Labradford e lo umanizza, è un disco invernale eppure con un forte calore di fondo, è come del fumo che si perde verso il cielo.
(Kranky, 2022)
1. Swimming In A Western Hotel
2. Outskirts, Dreamlit
3. Corniel
4. The North Line
5. Baitshop
6. Harmony Conversion
7. Memorizing, Memorizing
8. Just a Story
9. Nightwater
10. Wooster, Ohio
11. Almost Grown
12. Grounded