PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. (C.F)
IOSONOUNCANE > IRA
Ah Jacopo, ci sei riuscito. Avevi già destabilizzato una scena intera con il riuscitissimo DIE, sulle cui direttive avresti potuto arenarti per sfornare altri mille lavori di maniera, perfetti per il mercato italiano sempre più schiavo delle etichette, ma hai deciso di comporre qualcosa destinata ad essere discussa per anni. Un taglio netto con il passato, un’opera monumentale colma di disagio e che sembra essere suonata per chi mastica un certo tipo di musica da anni: la monoliticità tribale degli Swans (“Jabal”, “Prison”, “Hajar”) colma di gusti mediterranei, il disagio malinconico di Wyatt (“Hiver”, “Nuit”, “Horizon”), la follia elettronica dei Radiohead (“Foule”, “Piel”), l’ossessività nonsense dei Residents (“Ashes”, “Ojos”, “Prière”), la sensibilità melodica sacrale di Nick Drake (“Niran”, “Cri”). In due dischi, tutti ancora da eviscerare, ci sono questi richiami evidentissimi, ma non solo, sarebbe alquanto riduttivo e ingiusto affermarlo. Questa è una personalissima rielaborazione e un qualcosa che in Italia, a memoria mia, non s’è mai visto. Nell’era di Spotify e dell’easy-listening, costringi a immergermi per circa due ore della mia vita in questa sbornia colossale densa di contenuti. Forse sono tante, forse è troppo, ma da quando rappresenta un problema l’esprimere contenuti densi di così tanta ispirazione e con tale libertà? Cosa posso dirti, se non grazie? (Alessandro Romeo)
PERTURBATOR > LUSTFUL SACRAMENTS
Lustful Sacraments è un maelström buio e oscuro come la pece, che tutto avvolge e inghiotte. In nove tracce Perturbator rivoluziona la sua stessa proposta, che partita da una base synthwave si è ora arricchita di elementi gothic, simil industrial non disdegnando di far trasparire, sovente, l’approccio “crudo” ma viscerale e sanguigno che il Nostro ha nei confronti di un genere che spesso appare freddo e plasticoso. Una crescita costante quella del buon James Kent, che ha abbandonato le strade illuminate dai neon di Kavinsky per rifugiarsi in vicoli bui e minacciosi animati da torbide presenze. Forti gli echi dei Sisters of Mercy, riletti però in chiave malsana e horrorifica a metà tra colonna sonora di un film horror e un sabba del ventunesimo secolo, con un ritmo ed una tensione mantenute costanti grazie al pulsare di un’anima devota ai Nine Inch Nails degli anni Novanta. Lasciatevi intrappolare dalle ombre delle streghe che danzano sotto le volte della chiesa illuminata dal sole morente, lasciatevi andare ai morbosi sacramenti musicali di Perturbator. (Federico Botti)
FINE BEFORE YOU CAME > FORME COMPLESSE
Coraggio. Declinato in una moltitudine di forme e rappresentazioni, un concetto che ha finito per manifestarsi nella riappropriazione di una normalità che oggi come mai prima d’ora abbiamo imparato a chiamare vita. Gesti semplici come ad esempio tornare ad imbracciare uno strumento hanno finito per caricarsi di un nuovo significato, legato indissolubilmente ad un personale istinto di sopravvivenza. Sta tutta qui la spinta che i Fine Before You Came hanno saputo trasformare in prezioso carburante per la realizzazione del nuovo album quattro anni dopo il precedente Il Numero Sette. Presentate in una pagina web di pre-ascolto linkata su newsletter, ospitante un player minimale su sfondo bianco, le sette tracce che compongono Forme Complesse rappresentano l’ennesimo apice raggiunto da una band che come poche altre nella scena riesce a colpire duro nell’emotività del suo ascoltatore ad ogni sua uscita. Musicalmente ogni singolo passaggio del disco rispecchia i tempi in cui viviamo. Le ritmiche roboanti post-hardcore dei vecchi lavori sono ormai ricordi sbiaditi. I tempi si dimezzano e tutto sembra assumere una forma circolare e misurata, avvolgendosi attorno ad arpeggi slowcore ariosi e ripetitivi che sembrano enfatizzare una monotonia con la quale abbiamo, chi più e chi meno, imparato a convivere. L’urgenza di gridare il dolore al mondo per esorcizzarlo si placa. Le liriche compassate ma sempre lapidarie e struggenti di Jacopo ci vengono esternate con toni sommessi e fraterna delicatezza mentre per trentadue minuti ci ritroviamo sfiniti e distesi nel buio di una camera a soppesare le nostre esistenze con rinnovata autoconsapevolezza. (Federico Rapisarda)
QUICKSAND > DISTANT POPULATIONS
Questa volta i Quicksand non si sono fatti attendere troppo: Distant Populations è il secondo album della nuova era del trio Newyorkese, usciti ufficialmente dal proprio letargo musicale nel 2017, con Interiors. La maturazione che porta all’incisione di questa nuova opera vuole che il sound tipico dei Quicksand subisca un ulteriore sintesi. I riff di chitarra e le ritmiche sono più asciutte e minimali rispetto al passato, ma ancora più penetranti, dirette e perfettamente funzionali alla voce melodica e sofferta di Walter Schreifels, inossidabile leader del gruppo e vera fucina di idee. Le note e gli accordi scorrono come un fiume in piena, formando un flusso di undici tracce che si esaurisce in appena trentatré minuti; dunque un album breve e intenso, ma che regala forti soddisfazioni, specialmente a chi è affezionato ad un songwriting fortemente debitore agli anni novanta. L’arrotondamento delle distorsioni, che allontana di qualche centimetro la band dal post-hardcore più rabbioso e pezzi come “Brushed” con la sua intelaiatura acustica rendono questo full length decisamente fluido e trasversale. Imperdibile per i vecchi fan, da consigliare a chi ama sonorità che sposano chitarre grosse e melodie melanconiche. (Matteo Bozzuto)
MOTORPSYCHO > KINGDOM OF OBLIVION
L’ultima fatica dei norvegesi si muove sulle medesime coordinate del precedente All is One, tra sferzate prog, atmosfere psych e riffoni di Sabbathiana maniera. Kingdom of Oblivion rappresenta un ulteriore lavoro di qualità che, rispetto al precedente episodio, risulta più ispirato e meno pesante da assimilare. Dopo più di 30 anni di carriera e all’alba delle 60 uscite ufficiali, la vera sfida è rappresentata dal tentativo di non annoiare l’ascoltatore, anche quello facente parte della fanbase più accanita. Tutto sommato la sfida continua a essere vinta, in quanto i tre norvegesi continuano a vivere e a mostrare, anche attraverso un disco come Kingdom of Oblivion, il lato più genuino della musica vissuta, fatto di live coinvolgenti, sincerità artistica e tanta fatica. Nonostante le coordinate e le ispirazioni siano sempre quelle degli ultimi dieci anni, Kingdom of Oblivion conferma che i Motorpsycho sono sempre più un gruppo prolifico all’inverosimile che, seppur calato di costanza, continua a sfornare in ogni album delle chicche di indiscutibile brillantezza: basti ascoltare la mirabolante “The Transmutation of Cosmoctopus Lurker”, l’incalzante “The Waning Pt.1&2”, l’arrangiamento curatissimo di “At Empire’s End” o la delicatissima “Lady May 1”. Insomma, vi si vuole bene e vi si ascolta sempre volentieri. (Alessandro Romeo)
BLACK COUNTRY, NEW ROAD > FOR THE FIRST TIME
Uscito a Febbraio per Ninja Tune e definito da pareri illustri come uno dei migliori debutti della storia recente del panorama indipendente, For The First Time è un album di straordinaria coerenza che sorprende e spiazza per l’enorme varietà di tasselli sonori di cui si compone. L’attesa opera prima dei Black Country, New Road, settetto di ventenni proveniente dalla South London dei chiacchieratissimi Black Midi e Shame, si innesta perfettamente nella rinvigorita scena post-rock/post-punk del ventunesimo secolo. Ricalcando un certo stile esecutivo e compositivo caro a band come Slint e June of ’44 con l’aggiunta di un’attitudine genuinamente aspra e tranchant tipica della generazione z, i BCNR si muovono mostrando alternativamente diverse facce musicali di una stessa medaglia. Passaggi nu-jazz incorniciano riff nevrotici di chitarra alternando rimandi prog-kraut a sortite melodiche in “Science Fair”, brano tra i più ispirati ed innovativi dell’album, che sintetizza in maniera inappuntabile una verve scrittoria fatta di vorticosi saliscendi emotivi grazie anche alla complementarietà di sax e violini a far da contrappunto. Menzione obbligatoria per la voce di Isaac Woods che caricandosi di una teatralità al limite del caricaturale fotografa perfettamente, grazie al mix di potenza e disillusione dei testi, tutta la frustrazione dovuta ad un’incompatibilità personale nei confronti della superficialità di un mondo che non ammette più emozioni sincere né debolezze. (Federico Rapisarda)
LIARS > THE APPLE DROP
Arrivati al loro decimo album, ovvero The Apple Drop, i Liars si trovano davanti a una importante svolta nella loro carriera. Se seguite la band si Angus Andrew sin dall’esordio non sarete di certo stupiti di questo cambiamento dato che stiamo parlando di uno dei gruppi più fluidi della scena indie che partendo da un punk-funk ispirato ai Gang Of Four si è poi espressa attraverso i generi più trasversali passando dal noise rock fino alla dance. Lasciatosi in parte il passato alle spalle Andrew riforma i Liars come gruppo, dato che negli ultimi anni era diventato una sorta di progetto solista, e inserendo due musicisti del calibro di Cameron Deyell e Lawrence Pike è tornato a incidere pezzi con basi più “suonate” attraverso strumenti a corda e la batteria classica. Gli elementi elettronici rimangono dato che fanno parte del DNA stesso dei gruppo, ma The Apple Drop può essere considerato un album post-rock, con sonorità che ricordano Sisterworld e WIXIW. Tutto come sempre viene amalgamato con tanta intelligenza, i pezzi hanno sempre dinamiche inaspettate e tutto fluttua attraverso una attitudine punk e ad un songwriting delicato influenzato tra gli altri dai Radiohead. Angus Andrew sfiora il capolavoro, ci regala la sua opera più matura e, salvo ulteriori cambiamenti, ci mostra come saranno i Liars nel futuro. (Matteo Bozzuto)
DEAFHEAVEN > INFINITE GRANITE
L’attesissimo – e temutissimo, visto il battage mediatico che ogni loro uscita normalmente scatena – ritorno in scena dei californiani Deafheaven diviene finalmente realtà e porta il nome bizzarro ma quanto mai evocativo di Infinite Granite. Iconoclasta per vocazione e giunta al suo primo decennio di attività, la band, ormai pienamente consapevole del suo potenziale, decide di spostare ulteriormente il proprio orizzonte musicale con un lavoro che rafforza e delinea in maniera ancor più incisiva rispetto al precedente Ordinary Corrupt Human Love, un profilo identitario chiaro e coeso, fieramente ostile a qualsiasi forma di confinamento e catalogazione. Abbandonato quasi totalmente lo screaming che ha portato la critica ad etichettarli come band blackgaze, la voce di George Clark, pulita e rarefatta, riesce a valorizzarsi in un connubio di suoni riverberati tipicamente shoegaze ed armonie dream-pop dense e sorprendentemente orecchiabili. Il mood del disco viene sintetizzato in particolare da “In Blur”, terzo singolo uscito in anteprima, in cui ritmiche incalzanti si ripetono alternandosi in trame che accantonano una struttura da suite per sposare direzioni più lineari e morbide quasi a generare nell’ascoltatore una sensazione di gradevole rilassatezza ipnotica. Si può dunque dire che con Infinite Granite i Deafheaven riescano perfettamente nel loro intento, ovvero creare musica di qualità altissima giocando in contropiede con le aspettative di critica e pubblico, costruendo dalle fondamenta zone di comfort sempre diverse senza per questo snaturarsi o peccare di opportunismo. (Federico Rapisarda)