PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. (C.F)
LINGUA IGNOTA > SINNER GET READY
Nascondete i vostri bambini. Nascondete i vostri mariti. L’inesorabile e spaventoso risveglio dell’incomprensibile, dell’irrazionale ci giunge, decantato dall’arte totale di LINGUA IGNOTA, dal profondo della polverosa America rurale, terra di Masters e dei fratelli Cohen, visceralmente intrisa di misticismo e spiritualità, molto più aliena di quanto Hollywood non voglia farcela credere. Dai campi di granturco e dalle linde chiese bianche si raccattano i pezzi che compongono quel diabolicamente preciso carillon che è SINNER GET READY: ogni tocco di tasto ed ogni vibrazione di corda sono regolati al fine di accompagnare la mai così ispirata voce di Kristin Hayter, che intrappola l’ascoltatore in un gospel emotivamente totalizzante, più strutturato del furioso All Bitches Die e più mistico del viscerale CALIGULA. Dall’austero organo di “I WHO BEND THE TALL GRASSES” al sobillante coro di “REPENT NOW CONFESS NOW”, passando per l’allucinante “MAN IS LIKE A SPRING FLOWER”, che pare la colonna sonora di una discesa lungo un fiume infernale, SINNER GET READY tesse la trama di una religione, di qualcosa che dal culto fa propria la capacità di interpretare tutto come astrazione, come spirito mistico e meravigliosamente altro. Non solo un grande album di musica sperimentale ma uno strumento per, almeno nell’ora dedicata al suo ascolto, interpretare ciò che viviamo in maniera differente. Assoluto. (Davide Brioschi)
IRON MAIDEN > SENJUTSU
Gli Iron Maiden sono quella band che, nel panorama della musica metal, riesce a spaccare il pubblico esattamente in due fazioni: da una parte “eh ma hanno fondato la loro discografia su tre accordi”, mentre dall’altra “senti quanti capolavori son riusciti a scrivere con tre accordi”. Nel 2021 tornano sulla scena con il diciassettesimo album in studio Senjutsu pubblicato il 3 settembre. Anticipato dal singolo “The writing on the wall” (con tanto di videoclip strapieno di eastereggs) il disco si presenta sin dal primo ascolto come un lavoro di livello altissimo, compatto, con idee chiare e ben sviluppate. Se i due precedenti lavori discografici potevano vantare di alcune tracce meritevoli, non risultando tuttavia convincenti nel complesso, qua siamo di fronte ai Maiden nella loro migliore forma; un disco degno dei caposaldi degli anni Ottanta e, per quanto riguarda l’ultima formazione, all’immenso Brave New World, se non superiore. Nonostante la formula proposta sia pressoché la stessa da sempre, ciò che lascia davvero il segno sono le infinite finezze nel processo compositivo, dalle strutture delle canzoni (sempre più ampie e ricercate) agli arrangiamenti al limite della perfezione. Non tutti i brani sono perfetti e qualche momento di fiacca non manca, ma nel complesso è un disco potente e diretto che arriva, che rimane e che, una volta finito, lascia la voglia di schiacciare nuovamente play. (Siro Giri)
OSI AND THE JUPITER > STAVE
Mettete in cuffia Stave di Osi and the Jupiter, accedente un falò al tramonto, sedetevi e guardate le fiamme, le braci che ardono, inspirate il profumo della legna che brucia, chiudete gli occhi. Se siete fortunati la vostra mente inizierà a viaggiare trasportata dalle note di “To Reap What has Sown” per raggiungere gli Appalachi, e lì iniziare a vagare tra foreste, fiumi e montagne. Come un moderno sciamano Sean Kratz vi metterà in contatto con il vostro Spirito Guida attraverso “Cosmic Creation Through Primordial Void”, “Inner Flame”, e “Mountain Shamanism”, e vi racconterà poi la storia di queste antiche montagne con “Folk of the Woods”, “Old Ways”, “In Death (Carry Me Home)”, e soprattutto “Appalachia”. Alla fine di questo viaggio in musica riaprirete gli occhi, che saranno bagnati da calde lacrime, e avrete solo voglia di chiuderli nuovamente per iniziare il viaggio da capo. Folk americano, ambient e riverberi elettronici, pennellate di folklore norreno: questo è Stave, ultimo parto in casa Osi and the Jupiter: un disco difficile da descrivere, trasversale nei generi trattati, ma straordinariamente diretto nel modo in cui sa arrivare dritto al cuore. Musica che scalda e che illumina le notti buie. (Federico Botti)
LANTLOS > WILDHUND
Dopo un’attesa durata ben sette anni è stato pubblicato nell’estate del 2021 tramite Prophecy Productions il nuovo lavoro dei Lantlôs e definitiva scissione dal black metal per il progetto tedesco. I primi lavori in pieno stile blackgaze, infatti, sono ormai un ricordo remoto, e la trasformazione iniziata con Melting Sun (2014) ci svela oggi in Wildhund, un sound inaspettato e maturo. Il leader Markus Siegenhort ha mantenuto solo delle arie velatamente shoegaze nella sua proposta, che per il resto spazia tra alternative e post-metal, in arrangiamenti non elementari ma non per questo dispersivi che donano ai vari pezzi identità diverse. Sembra paradossale ascoltare atmosfere che sanno anche essere avvolgenti e rassicuranti in un lavoro dei Lantlôs, quando i primi passi erano stati mossi tra malinconia e introspezione, ma dietro l’evoluzione della loro musica si cela questa sorpresa. È davvero interessante com’è riuscita a mutare la proposta del gruppo anno dopo anno, arrivando con questo quinto full-length a non abbracciare nello specifico nessuna distinzione di genere, cercando un risultato eterogeneo e privo di rimandi ad altre realtà. Il risultato è ben riuscito, e chissà che non sia solo l’anticipazione di ulteriori progressi futuri. (Jacopo Silvestri)
BACKXWASH > I LIE HERE BURIED WITH MY RINGS AND MY DRESSES
Uno degli album più chiacchierati del panorama industrial mondiale di quest’anno è sicuramente il terzo di Backxwash intitolato in modo magniloquente I Lie Here Buried With My Rings and My Dresses. L’industrial hip-hop tipico dei Dälek è stato proiettato in maniera fantastica nel 2021 con una chiave modernissima dall’artista canadese, che riesce ad imbastire un muro di generi ibridati in modo incredibile dall’hip hop più standard, all’industrial, alla trap al noise. Questo portentoso miscuglio di sonorità è poi reso aulico e pomposo all’inverosimile con una produzione esaltante che riesce a tirare fuori il meglio anche dalle collaborazioni variegate e intrattenenti al 100% (ad esempio la collaborazione con l’artista noise pop Ada Rook). Il mondo visto dagli occhi di Backxwash è sporco, violento e deprimente e la sua trasposizione in musica ne è un ritratto perfetto. I Lie Here Buried With My Rings and My Dresses insomma è un album potentissimo che farà parlare molto di sé nelle top di fine anno in tutto il mondo. (Andrea Facchinello)
CARCASS > TORN ARTERIES
Ogni tanto anche i coltelli di Liston vanno affilati, ciò non toglie che siano dannosi se usati per accarezzare i tessuti molli del corpo umano. Allora anche per i Carcass il discorso vale, perché I tempi di Heartwork sono andati ormai, però come si fa a dire che questo Torn Arteries non vale uno, due o anche dieci ascolti? Lì vale eccome perché magari il tempo non è stato gentile con Jeff Walker e soci e li ha appesantiti dell’età, ma lo spirito è ancora forte e grazie a questo spirito pezzi come “The Devils Rides Out” e “Kelly’s Meat Emporium” sono episodi estremamente coinvolgenti e gustosi, capaci di divertire e far partire il pogo selvaggio con annesso headbangin’ da colpo di frusta. Torn Arteries è un disco fermo agli anni novanta, la band non si è mai mossa dal suo stile ma di rado si è riciclata. Certo, noi siamo andati avanti, il death metal è andato avanti, ma quando senti queste cose, quando ti rifugi di nuovo nel sound barbaramente raffinato dei Carcass non puoi che tornare un pischello deathster in cerca di succo di pomodoro e budella di budino che per quanto finti danno sempre grandi soddisfazioni. (Antonio Sechi)
LOW > HEY WHAT
Pochi anni ancora e i Low potranno vantarsi della loro carriera trentennale, un traguardo importante per una band che sin dagli esordi viene messa al centro dell’indie rock più interessante e raffinato e che grazie alla sua maturità è capace di produrre ancora prodotti ispirati e curati come questa ultima fatica intitolata Hey What. Un introduzione rumorosa e macchinosa, due voci calde a coccolare l’ascolto e con “White Horses”, primo brano dell’album, si spalancano i cancelli del paese delle meraviglie costruito dai Low, un mondo che sa essere tenero e crudele ed allo stesso tempo grottesco. Il loro stile, denominato slowcore, si basa su suoni dilatati sui quali si appoggiano le voci calde e confortanti di Alan Sparhawk e Mimi Parker, i due fondatori del gruppo. Buona parte della tracklist si fonda su di una elettronica minimalista che si tuffa in loop sonori, spesso rumorosi, dalla quale possono scaturire melanconiche melodie pop. Il loro stile è straniante ed empirico, ogni battuta è inserita e studiata in modo matematico, ma nonostante questo siamo all’ascolto di pezzi tutt’altro che asettici, melodie animate da una voglia di aprirsi ed esplodere anche quando possono sembrare opprimenti. “I can’t wait” , “Hey” e “Don’t walk away” sono le tre tracce assolutamente da non perdere. (Matteo Bozzuto)
XASTHUR > VICTIMS OF THE TIMES
Xasthur è una creatura oscura, un demone che per anni ha messo in musica gli spettri della cultura americana con un depressive black metal oscuro e feroce, tra i più distinguibili nel panorama americano. Dopo un periodo di stop e cambi di monicker il californiano ha ripreso il suo vecchio nome e ha partorito un disco nero, deprimente, claustrofobico, scuro e nero come la pece, ma lontano anni luce dal black metal. Più di un’ora di musica, ventidue brani di folk acustico nei quali in linea di massima i protagonisti sono la voce e la chitarra. Xasthur traduce in musica la decadenza della società americana, fa luce sulle sue debolezze, dà voce ai senzatetto, ai barboni, ai drogati e agli alcolizzati, vittime di un sistema che, in piena crisi, non ha saputo aiutarli o sostenerli. Un folk caustico, difficile da digerire, lo-fi, brutto e sgradevole: non poteva essere altrimenti per parlare di queste tematiche. Victims of the Times è un disco per stomaci forti, da ascoltarsi come colonna sonora a un documentario su East Hastings (Vancouver). (Federico Botti)