PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula.
THE SMILE > A LIGHTFOR ATTRACTING ATTENTION
Inutile girarci attorno ed andiamo subito al punto: A Light For Attracting Attention, l’album di esordio dei The Smile, è in verità percepito come il nuovo album dei Radiohead. Possiamo affermare questo non solo per il songwriting di Thom Yorke e Jonny Greenwood, ma soprattutto perché la presenza di Tom Skinner, già batterista degli Sons of Kemet, per quanto preziosa, non altera minimamente un’idea musicale che i due componenti dei Radiohead portano avanti dagli anni 90 e che ripropongono oggi con questo nuovo progetto. Non siamo lontani dalle sonorità di Kid A o Hail to the Thief; il suono trasversale ed iconoclasta della band viaggia attraverso flussi di coscienza che possono miscelare con intelligenza e sapienza, un’elettronica acida e pungente a ritmi sincopati di matrice jazz. A dominare le frequenze abbiamo ancora una volta la voce malinconica di Thom Yorke che con i suoi falsetti sa penetrare nell’animo dell’ascoltatore. La tracklist è una montagna russa: note che cadono a pioggia in un rock ruvido (“You Will Never Work In Television Again”), ballate acustiche struggenti (“Free In the Knowledge”), assoli di tromba da brividi (“Skrting On the Surface”). Inappropriato parlare di esordio, A Light For Attracting Attention è solo un’altra prova della grandezza di Yorke e soci. (Matteo Bozzuto)
EMMA RUTH RUNDLE > ORPHEUS LOOKING BACK
Pochi dischi negli ultimi anni sono stati delicati e intimi come Engine of Hell di Emma Ruth Rundle, in cui la musicista statunitense ha messo a nudo emozioni autentiche e profonde in maniera eccellente, servendosi di uno stile minimale e avvolgente. Proseguendo sulla stessa rotta è uscito l’EP Orpheus Looking Back nello scorso mese di marzo, e anche se potrebbe apparire a un ascolto fugace una breve raccolta di b-sides dell’album e poco più, con i suoi pezzi anche questo lavoro ha qualcosa da dire e riesce a cullarci con la sua leggerezza nostalgica. Il timbro leggiadro ed espressivo della Ruth Rundle è immancabile e, senza nulla togliere ai due pezzi in acustico posti agli estremi dell’ascolto, in “Pump Organ Song” rapisce in un’atmosfera dalle sensazioni maledette e decadenti. Il passaggio centrale dell’EP è quello più espressivo e viscerale, pur nella sua natura essenziale, abile nel dare valore a questa piccola gemma nella carriera della statunitense. Niente di stravolgente, ma tre semplici brani che avvalorano ulteriormente il suo stile intimo e prezioso, tra le soavi composizioni in acustico e l’introspezione della seconda canzone. (Jacopo Silvestri)
ABBATH > DREAD REAVER
La macchina da riff Abbath con il suo progetto solista se n’è uscito con Dread Reaver, un nuovo disco fresco fresco ma che di fresco non profuma. Ormai sta diventando una sorta di prassi che musicisti datati ci provano in tutti i modi a dare il meglio di loro con risultati discutibili. Dread Reaver si dimostra un lavoro enorme durante i primi ascolti, capace di regalare momenti veramente divertenti e di grande trasporto, ma se lo si vuole ricordare così, questo disco è meglio non ascoltarlo più, in modo da non riconoscere i numerosi passi del disco in cui il passato degli Immortal e del progetto Abbath in sé vengono a galla in maniera quasi prepotente. Non c’è dubbio che la grande passione di Abbath per i Motörhead renda il tutto estremamente gustoso e catchy soprattutto sul piano vocale, ma a lungo andare le reminiscenze di lavori come Between Two Worlds, All Shall Fall emergono in maniera troppo palese e rendono il tutto tristemente riciclato.
Solo per appassionati. (Antonio Sechi)
SORE DREAM > TEARS OF A BLISTERED WORLD
Ribollenti calderoni di vetri e lamiere, neri rivoli di sangue e resina, un acre odore di fumo e disinfettante chirurgico. Queste le immagini che i suoni contenuti nell’ultimo lavoro dei Sore Dream, Tears of a Blistered World, proietta nel cervello di chi ne ascolta la sferragliante cacofonia. Il crimine musicale perpetrato dal duo (voce e chitarra dei più noti Full of Hell) si manifesta tramite quell’harsh noise che poco ha a che fare coi maestri giapponesi del genere e che fa più leva sulle atmosfere, macabre e disturbanti come pochi altri generi possono evocarne. Brani come “The Pain of Being” o l’ipnotica “Hive Enlightenment”, con il suo assordante ronzio che arriva fino alle viscere, non possono non scuotere chi porge i timpani alla loro crudeltà musicale. L’aggressività sonora ma allo stesso tempo la sapienza con cui due maestri del rumore come Spencer e Dylan riescono ad ammaestrare il drone, il noise e l’elettronica rendono Tears of a Blistered World un capolavoro del genere, infondendolo di un’anima duplice e, al contempo, estremamente coerente. (Davide Brioschi)
TERROR > PAIN INTO POWER
Ci sono voluti quattro anni per poter riassaporare l’hardcore oltranzista e senza compromessi dei Terror. La band californiana, guidata dal fiero capitano Scott Vogel, non ha mai fatto mistero delle sue influenze metal e leggermente più “estreme”, e con il nuovo capitolo Pain Into Power non si smentisce. Basti pensare che nella traccia “Can’t Help but Hate” abbiamo un ospite d’eccezione, ovvero il monumentale George “Corpsegrinder” Fisher dei Cannibal Corpse. Collaborazioni a parte, in generale tutto il disco è al 100% quello che ci si aspetta: una sberla di hardcore-metal nella faccia, veloce e diretta. Pain Into Power ci mostra infatti una band compatta, che sfodera una prova di assoluto rilievo, senza mai scivolare nel manierismo o nella nostalgia dei bei tempi andati. In particolare la prestazione vocale di Vogel e le cangianti ritmiche sono il valore aggiunto di quello che potrebbe essere uno dei dischi hardcore dell’anno. Ci sono poche band hardcore che sono invecchiate bene e non hanno mai perso il giusto equilibrio, e da questo punto di vista i Terror sono un vino di ottima annata. (Paolo Cazzola)
ARCADE FIRE > WE
Un cuore che batte e una voce che ansima, benvenuti nella “Age Of Anxiety”, un’ era fatta di incertezze, che assomiglia molto al nostro presente e che ci viene raccontato dagli Arcade Fire nel loro nuovo album intitolato semplicemente WE. Scritto a quattro mani dai coniugi Win Butler e Régine Chassagne, WE potrebbe essere l’ultima fatica del frontman dato che a marzo del 2022 ha annunciato la sua uscita dal gruppo regalandoci quindi un testamento molto ispirato e sentito che andrà a suggellare un percorso artistico tra i più importanti degli anni 2000. Composto da dieci tracce e suddiviso in quattro parti, WE raccoglie al suo interno molte delle idee che il gruppo canadese ha sviluppato nella sua carriera, ricorrendo ad un’ elettronica fluida di matrice anni 80 lì dove vuol fare scuotere il corpo, e di ballate acustiche e struggenti là dove si vuol far risvegliare l’anima. La voce dolce e fiabesca della Chassagne si alterna a quella profonda di Butler e ad ancora una volta ci regalano dei pezzi notevoli come la beatlesiana “End Of Empire I-III”, il rock pirotecnico di “The Lightninig II” e si concedono nel finale una bella collaborazione con Peter Gabriel nel pezzo elettro-pop “Unconditional II”. (Matteo Bozzuto)
DARK FUNERAL > WE ARE THE APOCALYPSE
Come si fa a descrivere un disco quale We Are The Apocalypse senza apparire come quei critici noiosi e insoddisfabili che con anni e anni di esperienza nel campo della critica hanno perso il cuore, hanno perso l’entusiasmo e la gioia della scoperta per quanto riguarda l’ascolto? Quei critici un po’ così, che non sono mai contenti, che vanno a cercare il difetto a tutti i costi solo per dimostrare a tutti che hanno ragione quando dicono che il disco perfetto non esiste e che determinate band e artisti a un certo punto della propria carriera dovrebbe smettere solo perché un disco appena uscito risulta terribilmente somigliante ad Attera Totus Sanctus ed effettivamente lo è, non è una questione di stile o di impronta riconoscibile della band; no no, è proprio una versione più curata di Attera Totus Sanctus. Ecco, come si fa a non sembrare uno di quei critici? Boh… (Antonio Sechi)
DEAD BIRD > IN THE ABSENT OF
Gli inglesi Dead Bird, nonostante sia la loro prima produzione, dimostrano di avere le idee ben chiare di quello che vogliono. Il loro post hardcore pesca in maniera sapiente da tutto ciò che di bello il genere ha offerto negli ultimi 15 anni. “Shell That Echoes Only” è la perfetta dichiarazione di intenti: i suoni limpidi e potenti degli strumenti a corde vengono scanditi da una sezione ritmica di altissimo livello (Chris dei TTNG è dietro le pelli) mentre la voce con enorme potere deflagrante esplode nel climax del brano. E proprio le linee vocali saranno tratto peculiare del disco fatto di momenti di pura furia come nel brano già citato oppure la potentissima “Sallow” e passaggi più intimisti come nelle seguenti “Division By Zero” e “As Sunflowers Rise” tra i brani più EMOzionanti che ho avuto il piacere di sentire quest’anno. Ci sono tracce dal timbro dolce amaro come “Serpents And Synonyms” con il suo spoken word sussurato e la riuscita sezione di fiati oppure l’epicità della conclusiva “Mono No Aware”. Il disco avrà una release in formato vinile in uscita per Voice of the Unheard Records che non vedo l’ora di avere nella mia collezione. Ottimi. (Diego Ruggeri)